La storia
“Leggenda vuole che l’Abbazia venne fondata in seguito a una visione da parte del re Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce, a cui apparve l’immagine della Madonna, dopo aver inseguito una cerbiatta in una grotta.”
“P.L. Tasselli nel 1693 (Antichità di Leuca) così la riferisce: …Mentre inseguiva il conte Tancredi una cerva, questa dentro certi nascondigli si rifugiò, indove trovò per suo asilo una immagine della gran Madre di Dio; voleva ucciderla per tutti i modi Tancredi, ma fatto avveduto che indove si ascose la cerva era nascosta l’immagine di Maria, genuflesso se le inchina e poi ad honor di questa santa Madre vi fece un monistero di Basiliani e lo chiamò Santa Maria di Cervate, hoggi Cerrate…
Comunque questa leggenda, per quanto suggestiva e legata al nome della chiesa, ritorna anche per luoghi e circostanze completamente estranei e diversi tra loro in puglia, quali l’origine di Francavilla Fontana e della Chiesa della Madonna della Scala a Massafra (Taranto).”
“Molto più probabilmente, la fondazione del complesso risale alla fine dell’XI secolo o agli inizi del XII secolo, quando Boemondo d’Altavilla (1058-1111), figlio del valoroso Roberto il Guiscardo, primo normanno elevato al titolo di Duca di Puglia, Calabria e Sicilia, vi insediò un cenobio di monaci greci, seguaci della regola di San Basilio Magno.
I monaci basiliani, riparati in Salento per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste di Bisanzio, abitarono stabilmente a Cerrate dalla metà del XII secolo, epoca in cui le fonti testimoniano della vivace attività di una biblioteca e di uno scriptorium.
Sorta in prossimità di una strada romana che univa Brindisi con Lecce ed Otranto e immersa nel ricco contesto rurale della zona, l’Abbazia venne ampliata fino a divenire uno dei più importanti centri monastici della Puglia e dell’Italia meridionale.
Passato nel 1531 sotto il controllo dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, il complesso aveva ormai raggiunto una struttura ricca e articolata, dove oltre alla chiesa, si annoveravano stalle, alloggi per i contadini, un pozzo, un mulino e due frantoi sotterranei.
Il saccheggio da parte dei pirati turchi nel 1711 fa precipitare l’intero complesso in uno stato di completo abbandono e degrado che prosegue lentamente nel corso di tutto il XIX secolo fino all’intervento della Provincia di Lecce, nel 1965. E’ in questo momento che ha inizio una nuova storia per l’Abbazia grazie ai lavori di restauro affidati all’architetto Franco Minissi che permisero di frenare il degrado e allo stesso tempo di allestire il Museo delle Arti e Tradizioni popolari del Salento.”
Prima dell’inizio dei lavori di restauro, così si esprimevano in una relazione, gli architetti A. Nuzzo e A. Olivetti sullo stato dei luoghi seguito al saccheggio dei turchi del 1711: “il pericolo di tali incursioni a poco a poco costringe i contadini ad abbandonare i campi e Cerrate, e via via la regione insterilisce invasa da acque stagnanti e da malaria. Ancora una volta Cerrate decade e la masseria si avvicina alle condizioni in cui ora appare Comunque Cerrate ormai è in una zona desolata e pressochè disabitata, all’incuria si unisce un vandalismo dei contadini che, con più mani di intonaco, coprono pitture e rilievi, sfondano pavimenti in cerca di tesori, adibiscono chiesa e portico a stalla e deposito” E ancora: “Nel mese di maggio del 1968 ignoti ladri rubarono cinque capitelli, distruggendo le colonne e arrecando gravissimo danno anche agli archi di sostegno. Fortunatamente tre capitelli furono recuperati anche se sbrecciati o smussati. Il più grave danno fu la completa distruzione di un capitello fra i più belli ed espressivi.”
“Grazie ad un bando pubblico promosso dalla Provincia di Lecce, nel 2012 il complesso è stato affidato al FAI in concessione trentennale con l’obiettivo di restaurarlo diventando primo bene della Fondazione in Puglia.
Importante esempio di romanico pugliese, la chiesa di Santa Maria, con facciata a capanna e rosone centrale, è suddivisa in tre navate con absidi. Il portale è sormontato da un’arcata con altorilievi di eccezionale qualità che riproducono scene del Nuovo Testamento.
Sul fianco sinistro della chiesa è addossato un porticato, edificato nel XIII secolo, sostenuto da ventiquattro colonne con capitelli raffiguranti elementi zoomorfi e figure mitologiche.
L’interno dell’edificio, scandito da archi ogivali, era completamente decorato con affreschi databili a partire dal XIII secolo, oggi visibili in seguito allo “strappo” degli strati di affresco successivi staccati negli anni Settanta e ora conservati nell’attiguo museo.
Edifici di epoche diverse si distribuiscono intorno alla chiesa: la Casa Monastica, la Casa del Massaro e un fabbricato risalente ai primi decenni del XVI secolo, con un’unica sala con volte a stella, presumibilmente impiegato come stalla.
Centro religioso e produttivo allo stesso tempo, il valore storico e culturale dell’Abbazia non può essere disgiunto dal contesto rurale pugliese nel quale è inserita: un meraviglioso paesaggio ricco di oliveti, alberi da frutto e aree coltivate.
Di questa fervente attività oggi troviamo traccia nel piano sotterraneo della Casa Monastica e della Casa del Massaro, dove sono presenti i resti di due antichi frantoi ipogei (detti trappiti) e di pozzi di raccolta dell’olio.
La facciata
“Il Portale è sormontato da un’arcata con altorilievi di eccezionale qualità che riproducono scene del Nuovo Testamento. Il Piccolo avancorpo è formato da un cordone semicilindrico curvato ad arco, che riposa sul dorso di due animali simbolici col muso di maiale, con lunga coda e colle zampe triungulate. Questi animali poggiano a loro volta sui capitelli di due colonne; e tra le foglie di acanto vi sono scolpite due colombe, una per ciascuno di essi. I pilastri che sorreggono la base di queste colonne furono aggiunti in uno dei tanti restauri subìti dalla chiesa.”
Maiale in altorilievo.
Particolare del portale. colonna, capitello, maiale, colomba tra foglie d’acanto.
Particolare del portale: colomba tra foglie d’acanto.
Panoramica della parte alta del portale e dell’archivolto con i sei riquadri rappresentanti il ciclo della natività di Cristo: la Madonna ancilla Domini, la visita di Maria a S. Elisabetta, i Re Magi, la nascita di Gesù, la fuga in Egitto, l’Angelo Annunziatore.
“La prima scultura a sinistra di chi guarda rappresenta secondo l’interpretazione data dal De Giorgi – un monaco basiliano che appoggia la sua destra sul petto, quasi in atto di preghiera, e con la sinistra afferra il cingolo che gli annoda la tonaca nella vita…Certo è che appare piuttosto strano l’inserimento di questa figura in alcune scene della vita di Cristo. Ma noi, seguendo l’interpretazione data dal Bertaux riteniamo che la prima scultura di sinistra e quella di destra rappresentino l’Annunciazione. L’Arcangelo infatti, anche se mutilo del capo, è leggermente rivolto verso la Madonna la quale è sorpresa nella intimità della sua casa mentre attendeva ai lavori di filatura di lana, come si vede dal fuso e dalla conocchia, che la Vergine regge nella mano sinistra, mentre la destra, quale umile atto di sottomissione, è portata sul petto verso il lato del cuore.”
“L’ultima scultura a destra dell’arco (che invece esaminiamo subito ndr), completa il quadro Ecce Ancilla Domini con la prima scultura a sinistra. Rappresenta l’Angelo Annunziatore della volontà divina. La figura porta la mano destra, come la Madonna, sul petto, segno di sottomissione alla volontà divina; e stringe nella sinistra lo scettro di Araldo. Le due sculture, l’Arcangelo Gabriele e la Vergine, rappresentano l’angelico messaggio della incarnazione del verbo di Dio alla Vergine Maria. La Madonna è colta mentre è intenta a filare la lana purpurea per il tempio di Gerusalemme.”
“Questa scultura rappresenta la visita della Madonna a S. Elisabetta. La Santa, a sinistra di chi guarda, appoggia dolcemente il capo sulla spalla della Madonna e incrocia le sue con le braccia di questa.”
“La scultura successiva rappresenta i tre Re Magi. Essi sono ricoperti di manto regale e la testa da un cappuccio a forma di turbante. Ciascuno di essi regge una coppa con le due mani; una piena di oro, la seconda di incenso, la terza di mirra. In alto la stella che li guida.”
“La stella conduce e sovrasta la bellissima scena della nascita di Gesù, vigilato in dolce atto d’amore dalla Madonna con l’aureola della santità e scaldato dall’alito del bue e dell’asinello. Il bimbo in fasce si ritrova nella simbologia greco-bizantina.”
“Il Bertaux ritiene che questa scultura, piena di calore e di intimità familiare rappresenti “l’Enfant lavè par une des sages-femmes dans la cuve traditionnelle en forme de calice” (Trad. Il Bambino lavato da una delle ostetriche nel tradizionale contenitore a forma di calice). Il De Giorgi, il Coco ed altri invece spiegano questo riquadro con il battesimo di Gesù per immersione, secondo il rito greco. Opinione che ancora resiste in quanti si occupano di S. Maria di Cerrate. Ma che rappresenti il Battesimo di Gesù è impossibile e anacronistico perchè il Redentore fu battezzato da S. Giovanni Battista nelle acque del Giordano quando era già adulto. Noi (l’autore ndr) riteniamo che la scultura rappresenti la fuga in Egitto. La Madonna è seduta sulla groppa di un asino, è coperta da manto e da un cappuccio; sorregge il piccolo Gesù anche egli col capo coperto in una piccola culla trattenuta dalla madre celeste mentre in primo piano è S. Giuseppe col bastone e le bisacce di pellegrino. La scena può anche rappresentare un momento di sosta dei tre fuggitivi, dato l’atteggiamento di riposo della mano destra di S. Giuseppe.”
Particolare del portale: fregio decorativo.
Il Rosone. Scrive il Castromediano (La chiesa di S. Maria di Cerrate…Lecce-Tip.Sal.p.7): “Come stella in campo perduto, vi appare la finestra a rosa, una volta riparata da cancello di rame perforato”.
La loggia
“La piccola loggia addossata al fianco sinistro della chiesa di Cerrate, rimane uno dei motivi più originali e preziosi del nostro monumento. Le ritmiche arcate, che lo delimitano sui tre lati della pianta rettangolare, (uno dei lati è composto dalla parete sinistra della navatella a cui è addossato), la piccolezza delle dimensioni, lo stile dei capitelli gli conferiscono un aspetto intimo e pregiato
…Nel silenzio della natura, a contatto della bellezza del creato e sotto lo sguardo ammonitore degli orrendi simboli dei capitelli, i monaci del gran Basilio elevavano le loro umili preghiere a Dio…”
“Anche se non possiamo intendere le funzioni originarie di questo chiostro, possiamo pienamente apprezzarne la validità artistica. Il gioco degli archi vi si svolge poggiando sulle esili colonnine a tutto tondo, che si alternano con quelle a motivi poligonali, in un’esatta scansione del vuoto. La persistenza nella nostra chiesa di un gusto più classicheggiante (notato anche a proposito dell’architettura e della scultura del portale), tende a rendere non solo più armoniche le composizioni, ma a conservare una propria funzionalità ad ogni elemento… La fastosità e la ricchezza decorativa di questo portico si sostanzia soprattutto nei capitelli. Essi sono ventiquattro e i soggetti che li animano, diversi gli uni dagli altri, non sono legati tra di loro da nessun nesso logico e ripetono i motivi cari all’iconografia romanica.”
“Le divergenze stilistiche esistenti tra le sculture del portale e i capitelli, se non rilevanti tuttavia percepibili, ci fanno supporre che l’esecuzione di questo complesso scultoreo non sia dovuta ad un solo artefice. Il carattere particolare di alcuni capitelli si sostanzia in un gusto del fantastico e del mostruoso… Non solo tali considerazioni ci fanno pensare ad influssi di altre scuole, ma anche quel gusto del mostruoso che si attua in figure di centauri, di mostri marini, di uomini sopraffatti dai vizi sotto forma di orribili ramarri, o di volti di donna terminanti in orridi corpi pennuti…Tali considerazioni ci indirizzano all’arte borgognona in cui queste sculture trovano dei riscontri tipologici e stilistici nonchè agli scultori moderni che di quell’arte subirono il fascino.”
“I motivi figurativi però, sia che abbiano carattere puramente ornamentale o simbolico, sono sopraffatti talvolta, dagli elementi decorativi di frutta, foglie e palmette…”
“Grifi geminati. Colonna ottagonale addossata al pilastro.”
“La composizione è quasi indecifrabile perchè il capitello è consumato dal tempo. Sono cariatidi su motivi vegetali. La colonna è cilindrica.”
“Figura di monaco addentato da ramarri o draghi sui quali l’aquila bicipite domina vittoriosa. La composizione può raffigurarela Chiesa dopo lo Scisma d’Oriente. Potrebbe rappresentare il monachesimo meridionale conteso tra le forze della romanità (l’aquila bicipite) e dello Scisma (i ramarri o draghi). Nell’aquila bicipite qualcuno vedrebbe il simbolo di Bisanzio e nella composizione la battaglia di Costantinopoli. La colonna addossata al muro è ottagonale.”
“Il centauro: mostruosa figura della mitologia greca, partecipe insieme della natura dell’uomo e del cavallo…I centauri feroci e selvaggi cacciatori, abilissimi nella corsa e nel tiro dell’arco, violenti e crudeli verso gli uomini coi quali si trovavano spesso in aperta guerra (e finirono col simboleggiare l’equilibrio che l’uomo deve sapere raggiungere tra ragione e istinto).”
Immagini di monaci o vescovi. Colonna cilindrica.
Sirena. Colonna cilindrica.
Il pozzo
Il pozzo costruito nel 1585 fungeva da fonte e cisterna, attingendo con ogni probabilità l’acqua dalla falda acquifera sottostante, ma anche da una struttura di canalizzazione di quella piovana che era posta sull’edificio retrostante. Il suo restauro è stato realizzato dal Fai grazie al generoso contributo della Fondazione Prada, una operazione partita ufficialmente nel giugno 2014 quando, in occasione dell’inaugurazione del negozio della griffe in via Sparano a Bari, l’azienda di Miuccia Prada decise – come già successo a Bologna e a Padova – di finanziare il recupero di due monumenti locali su indicazione del Fondo Ambiente Italiano.
In Puglia la scelta è caduta su un Polittico di Antonio Vivarini conservato alla Pinacoteca Provinciale di Bari e sul pozzo dell’Abbazia di Cerrate, che è anche il primo bene gestito dal FAI in tutta la regione.
Quando il complesso abbaziale passò nel 1531 all’Ospedale degli Incurabili di Napoli, uno dei primi miglioramenti che vennero apportati fu proprio la costruzione – datata 1585 – di questo pozzo, che, secondo l’iscrizione sull’architrave, fungeva da fonte e cisterna, attingendo con ogni probabilità l’acqua dalla falda acquifera sottostante ma anche da una struttura di canalizzazione di quella piovana, che era posta sull’edificio retrostante.
Ricco di decorazioni che ricordano le piante acquatiche, il pozzo è dominato in alto dalla statua di un mostro marino a cui è legata una suggestiva leggenda. Si dice infatti che indicasse con lo sguardo il luogo dove si trovava l'”acchiatura”, termine salentino per indicare il tesoro. Pare che il volto della statua sia stato distrutto come ritorsione dopo che scavando nel punto in cui guardava non era emerso alcun tesoro!
L’interno della chiesa – gli altari – gli affreschi
“In origine la chiesa ebbe un solo altare, secondo il rito greco, che era situato al centro della abside mediana.
Quest’altare è protetto da “un baldacchino lapideo, retto da quattro colonne sormontate da artistici capitelli di stile orientale che sostengono un’architrave su cui è posato un cupolino di legno”.
Sull’architrave vi è un’iscrizione greca che, interpretata, dice: “Ombracolo elegante dell’Altare del Signore, che Tafuro costrusse, essendo superiore Simeone, ed impose questo compimento a gloria dell’Altissimo, donde ogni largizione di beni discende. Nell’anno 6777 nel mese di marzo dell’indizione XII (corrispondente al 1266 dell’era volgare).
Un’altra iscrizione greca sta sul frontone o cimasa del baldacchino che, interpretata dice: Proteggi potentemente (o Signore) i presenti servi (tuoi) Simeone il fondatore, Racendite e Tafuro Di Matteo (?) artefici (?) Amen.”
“Nell’abside centrale il Cristo in Gloria ed altri Santi.”
“A sinistra l’altare, oggi distrutto, fatto erigere nel 1642 da G. Battista Pagani economo della casa degli Incurabili di Napoli. Questo altare fu dedicato alla Vergine di Cerrate della quale, in un quadro d’autore secentesco, esisteva una bella immagine raffigurante la Madonna col Bambino in braccio.”
“Alla destra è l’altare dedicato a S. Oronzo, che il canonico Leonardo Raho, amministratore dei beni dell’Abbazia, fece costruire nel 1661.”
“Dietro l’altare, figure di Santi e frammenti di edifici di epoca rinascimentale, assai vicini agli affreschi di S. Caterina a Galatina.”
“Nell’abside destra: un Santo a mezzo busto, due Angeli ed altri Santi.”
“Sulla parete della navata destra si può osservare un affresco svelato nel 1975 dagli stacchi di due strati sovrastanti (oggi nelle sale del vicino Museo delle Tradizioni Popolari): si tratta di un bizzarro “puzzle” costituito da conci affrescati e disposti in modo casuale e disordinato. La parete, un tempo interamente affrescata, si frantumò a causa di un crollo e venne ricostruita nel XIV secolo in modo grossolano con gli stessi conci per poi essere successivamente ricoperta da nuovi strati di affreschi.
Alcuni studiosi, provando a ricomporre l’immagine, hanno riconosciuto la figura di San Giorgio, insieme ad un volto femminile quasi integro con tracce di una ruota dentata (forse Santa Caterina di Alessandria) e a due volti di santi con aureola. Ciò che rimane di questo grande affresco dimostra comunque un buon livello tecnico e fa rimpiangere la perdita dell’impianto originario.” (3)
“I muri perimetrali ed i sottarchi sono decorati da una serie di affreschi, raffiguranti, da sinistra, la Morte della Vergine, la Sacra Famiglia, San Giorgio, probabilmente S. Demetrio, indi S. Michele ed una serie di Santi a figura intera.”
Epigrafe romana che contiene il nome Tutorius.
” L’interno della chiesa è diviso a tre navate da una serie di colonne sormontate da capitelli, su cui insistono archi ad ogiva.”
Il tetto a capriate, è ricoperto da legno, paglia e tegole.
Dietro, si notano tre absidi a tutta vista.
Nell’attiguo museo (ex frantoio) sono collocati gli affreschi staccati dello strato superiore.
“Sulla parete della navata destra, prima dei restauri era situato il grande affresco (m. 2,50 di altezza e m. 6,50 di larghezza ndr) diviso in tre parti: “Miracolo della Cerva, L’Annunciazione e San Giorgio con la principessa” oggi ammirabili nelle sale del vicino Museo delle Tradizioni Popolari.
Il primo episodio risale al XVII-XVIII secolo e ritrae la leggenda popolare tramandata dal Tasselli nel XVII secolo. Mostra un guerriero a cavallo sulla cui identità ancora oggi si indaga. Per alcuni sarebbe Boemondo, per altri Accardo o Tancredi che, nell’atto di sferrare un colpo di spada ad una cerva, vede apparire il volto della Vergine tra le corna dell’animale.
Il secondo riquadro delinea la cavalleresca leggenda di San Giorgio a cavallo che libera dal drago la principessa mentre, dalla terrazza di un castello vicino, su una collina, un gruppo di persone assiste alla scena.
Infine il terzo riquadro immortala la scena dell’Annunciazione attraverso uno stile ed una tecnica mirabile. L’Angelo e la Vergine sono inquadrati in un intimo contesto architettonico che dimostra di aver fatto proprie le lezioni di prospettiva di Giotto insieme all’eleganza dello stile gotico. Sotto questo affresco erano collocati altri due strati di pitture (in alcuni casi sinopie) eseguite tra i secoli XI-XV.
Sulla parete della navata sinistra era collocato in origine l’affresco Dormitio Virginis (secolo XV), staccato durante i lavori di restauro e ora nei vicini locali del Museo delle Tradizioni Popolari.
La Vergine giace morta su di un letto circondata da Apostoli raccolti nel dolore. In alto sette angeli sorreggono un nimbo nel quale è raffigurato Gesù Cristo che tiene in braccio una bimba in fasce, simbolo dell’anima della Madre. In alto a destra si possono ammirare le case di Efeso con il particolare di una donna che saluta la Vergine da una delle terrazze. A destra in basso è collocato il ritratto del committente accompagnato da una frase latina “Memento Domine famuli tui Peregrini de Morciano”. (3)
Sulle altre pareti sinopie e frammenti di altri affreschi.
Museo delle arti e delle tradizioni popolari
Nel 1965 l’Amministrazione Provinciale di Lecce entrò in possesso della Abbazia romanica di Cerrate.
Mentre procedevano i lavori di restauro, fu posto il problema della destinazione dell’importante complesso, perchè avesse una sua funzione non solo a fini turistici, ma anche, come punto d’incontro per studiosi e per tutti coloro che amano conoscere il passato delle genti salentine.
Tra le varie proposte, si scelse di dare vita ad un “Centro di ricerche e studi di Folklore e tradizioni popolari salentine” con annesso un piccolo museo, la cui sede fu ricavata da un ex frantoio.
In una piccola parte di esso, separata dal contesto per creare un ambiente a sè stante, sono stati riuniti gli affreschi staccati dalla chiesa. Si è voluto sistemarli in tal modo a causa della loro grandezza, ma anche perchè si è considerato fosse giusto che continuassero a far parte del patrimonio artistico di Cerrate.
Chi visita il Museo troverà una raccolta di oggetti artigianali, usati nelle nostre contrade prima dell’avvento dell’industria. Sono oggetti che ci riportano a un passato non molto lontano, in cui la nostra gente, priva di mezzi, povera, ha creato con le proprie mani e con molta abilità e buon gusto, servendosi di materiali del luogo. Trovare quanto è presente nel Museo non è stato facile, e si è potuto ottenere solo con un intenso lavoro di ricerca fin nei lontani paesetti del Capo di Leuca, passando per masserie abbandonate e per modesti casolari di campagna.
Intorno alla Chiesa sorgono altri fabbricati che, pur avendo un’origine conventuale, via via che il Convento si trasformava in “masseria delle Cerrate”, furono adibiti a vari usi come stalle, granai, frantoi.
Dal 2012, grazie ad un bando pubblico promosso dalla provincia di Lecce, il complesso è stato affidato al FAI – Fondo Ambiente Italiano in concessione trentennale con l’obiettivo di restaurarlo.
Il lungo fabbricato a sinistra, dietro la Chiesa, era l’antica mangiatoia degli animali da lavoro, che ora è stato adibito a salone di conferenze.
Gli ambienti a Nord Est della Chiesa, che erano la Casa Monastica, sono in attesa di utilizzazione.
Museo delle Tradizioni Popolari
Una breve presentazione di ciò che il visitatore vedrà raccolto ed esposto nel Museo è scritto su un pannello sulla parete destra dell’ingresso,
che dice: “Gli oggetti raccolti in questo museo non sono oggetti d’arte, ma soltanto oggetti che hanno una loro struttura e funzione, e sia pure a titolo documentario bisogna raccogliere e conservare specie perchè sono in via di sparizione. La raccolta è globale: dai vecchi frantoi in pietra agli arcolai, dalle eleganti giare con i manici ondulati alle misure per le olive, da un esempio di cucina tipica salentina a stampe di costumi salentini. Ed ancora, si passa ad un attrezzo per togliere i semi dal cotone, dai gioghi dalle eleganti forme agli arcolai, ai pestelli con i quali si pestavano il grano o il miglio nei mortai, alle eleganti casse nuziali. Una visita sia pure affrettata a questo Museo delle Tradizioni Popolari, lascerà senza dubbio una profonda impressione. Infatti chi guarda gli oggetti esposti può meglio comprendere l’animo della nostra gente salentina e riscontrare una forma di civiltà che non ha nulla da perdere nel confronto con quella di altre regioni.”
Di fronte all’ingresso è la riproduzione di una tavola del sec. XVI, raffigurante la chiesa di S. Maria delle Cerrate, con l’annesso cortile dove si svolgeva la fiera nel sec. XV.
Entrando nel Museo, il visitatore troverà nel locale alla sua destra, un antico mulino, proveniente da Acquarica del Capo, che reca su una macina la data 1896.
Ai lati sono degli antichi stompi, alcuni in pietra, altri in marmo, con i relativi stumpaturi in massiccio legno di ulivo.
Nel primo locale a destra del frantoio, è stata ricostruita una semplice cucina con mobili ed utensili tipici: un piccolo focolare sulla parete di fondo, con l’immancabile caldaia di rame (quatara) appesa alla catena (camastra); lu cofanu (conca di creta per il bucato) a lato; la mattrabanca (madia montata in un tavolo); la bbanca (tavolo usato per mangiare); la piattiera (piattaia); e altri oggetti casalinghi: “lu scarfaliettu” in rame (scaldino); le varie ucale (boccali); le tajedde (tegami); i pisaturi (piccoli mortai in legno per il sale); ecc.
Nel secondo ambiente, sempre a destra del frantoio, si è cercato di ricostruire una piccola stanza da letto.
Il letto è stato rifatto nella forma più semplice: una coppia di tristieddi (cavalletti di legno) sostengono due tavole di abete e su queste è appoggiato un saccone, riempito di paglia. Sul letto è stesa la pezzara, una caratteristica coperta tessuta di striscioline ritorte di stracci variopinti, lavoro paziente delle contadine nelle lunghe serate invernali, soprattutto nei paesi dell’estremo Salento. Accanto è posta la culunnetta (comodino) finemente intagliata. Sulla parete a lato è lu cummò (comò) con lu specchio.
Completano l’arredamento: una sedia impagliata, un portabacile smaltato con il bacile di creta, e altri oggetti vari;
lu casciune (cassapanca nuziale in cui era contenuto il corredo della sposa).
In un angolo sono i cosiddetti capicarru dove le nostre donne sistemavano i bambini in fasce, mentre sbrigavano le faccende.
Altri particolari oggetti presenti nella stanza:
Nel frantoio vero e proprio troneggiano due vecchi frantoi in pietra, che sono stati in parte restaurati per dimostrare la loro funzionalità.
Nell’ambiente che si è ricavato a sinistra del frantoio, murando un arco, sono stati sistemati gli affreschi e le sinopie distaccati dalla chiesa.
Nei locali di passaggio si nota, posto tra due bilance, anche un antico torchio per l’uva.
Nel locale a sinistra domina un vecchio telaio. Intorno sono diversi tipi di cardaturi, mangani, macinule, fusi, conocchie e molti attrezzi ancora che testimoniano quanto era intenso qui da noi l’artigianato della tessitura a mano.
Nota: Tutte le notizie relative al Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari sono state tratte dal breve saggio di G. Delli Ponti, Cerrate e il suo Museo – Amm. Prov. Lecce. Tipo-lito Ed. Salentina – ristampa 1/87 Galatina.
Frantoio ipogeo
Storia
Preziose strutture, silenziosi osservatori delle brutali condizioni cui erano sottoposti i suoi inquilini, hanno per secoli prodotto il cosiddetto “oro verde”: l’olio, frutto faticoso dei contadini, giungendo nonostante le incurie umane e l’usura nel tempo, quasi integri fino ai nostri giorni. Adesso ci forniscono preziose informazioni per capire lo svolgimento della vita di allora.
La coltura degli olivi si ebbe già in epoca romana, anche se in misura molto marginale: l’olio non si conosceva infatti come alimento bensì come “aroma”, utilizzato come unguento e cosmesi. La coltura acquisì notevole importanza dall’ XI secolo in poi grazie al fondamentale supporto dei monaci Basiliani che insegnarono alle locali popolazioni, per ben 4 secoli, l’arte olivicola; per cui l’olio ha sempre avuto nell’economia pugliese una notevole importanza. I frantoi ipogei (sotterranei, ricavati all’interno della roccia e scavati a mano da cavamonti chiamati “foggiari”), solitamente posti nei pressi di ambienti rupestri o grotte, sono tra i tanti muti testimoni di una civiltà millenaria.
I frantoi erano ipogei perché il ciclo di lavorazione delle olive necessita di un ambiente caldo (l’olio solidifica infatti a 6°), con temperatura costante (tra i 18°-20°); il calore certamente non mancava all’interno di questi locali sotterranei, perché generato da lumi che ardevano giorno e notte, dalla fermentazione delle olive e dal calore prodotto da uomini ed operai. C’era anche una questione economica, il frantoio ipogeo necessitava infatti di manodopera non specializzata, non era richiesta un’opera edilizia, non necessitava di spese e trasporto di materiali. Anche i residui della lavorazione olivicola erano facilmente smaltiti, attraverso le fenditure naturali delle rocce.
Condizioni di lavoro
All’epoca, gli agricoltori dovevano porre il raccolto presso i depositi feudali (camini) avendo i baroni il diritto di esclusività con un contemporaneo divieto di ogni iniziativa privata. I macchinari, spesso inadeguati al fabbisogno, facevano protrarre la molitura; si racimolavano perciò grandi mucchi di olive che finivano per putrefarsi con buona parte dell’olio non più commestibile, quindi venduto a prezzi estremamente bassi e usato per saponeria. Le condizioni lavorative nei frantoi erano precarie e non certamente delle più igieniche, a causa della lavorazione dell’olio e forti odori di animali. Il lavoro durissimo proseguiva per tutta la giornata, in condizioni spesso disumane e insostenibili, 24 ore su 24, con turni di riposo all’interno dello stesso frantoio; in modo da essere sempre disponibili alle continue pretese dei “padroni” che esigevano il massimo, incuranti della salute dei sottoposti. Quelle condizioni perdurarono non solo per tutto il 1700, ma anche nel secolo successivo. Gli “operatori del settore” erano i trappitari, il nachiro (capo dei trappitari) e l’asino (lu ciucciu) oppure il mulo, “che trainava nell’oscurità (o bendata per evitare che le girasse la testa ndr) la barra della macina con una campanella attaccata al collo ” come riferiscono le antiche cronache.
Ciclo di lavorazione
Per evitare i furti delle olive, queste venivano conferite dai contadini all’esterno, dove attraverso le “sciave” (aperture nella roccia che collegavano la strada al frantoio), le olive andavano a finire direttamente nel frantoio.
Venivano buttate poi nella vasca di macinazione (che macinava circa 6 tomoli), per una prima macinatura e schiacciamento;
la pasta risultante era depositata sui “fisculi” di giunco, messi sotto i torchi che potevano essere del tipo “alla calabrese” o “alla genovese”, per una prima spremitura; questo procedimento, dalla vasca ai fisculi veniva ripetuto una seconda volta e se necessario una terza volta. L’olio che fuoriusciva depositava nei pozzetti di decantazione per farlo riposare; veniva successivamente raccolto con la “sciuanna” e depositato in altri recipienti per essere poi venduto (postura dell’olio).
La sentina, cioè il residuo, si depositava in altre vasche per essere poi solitamente dispersa nelle fenditure naturali della roccia. La terminologia di alcuni strumenti usati nei frantoi è, non a caso, marinara, essendo molti operai stagionali, svolgendo il mestiere di marinai durante il periodo estivo.
Varie zone attraversate da sciave venivano usate come depositi.
Gli strumenti utilizzati in un frantoio ipogeo erano:
– la vasca di frantumazione delle olive, dove all’interno giravano 2 enormi e durissime pietre cilindriche (una più piccola [pietra dormiente] ed una più grande [pietra molare]) che ruotavano sullo stesso asse;
– lu conzu (composto dalla madre vite dove scorreva lu santu dunatu, un blocco legnoso che rappresentava la “testa” della pressione) e la mammareddhra che erano i torchi;
– la chiancula, un pezzo di legno utilizzato per lo schiacciamento dei fisculi sotto la pressione della vite del torchio;
– il derfinu, blocco di pietra posto alla base del torchio avente nella parte anteriore un solco con un canale interrotto da un varco nel quale scorreva quanto era spremuto nell’ancilu;
– lu nappu, recipiente di latta che raccoglieva il residuo dell’olio galleggiante sulla sentina all’interno dell’ancilu;
– la sciuanna era un recipiente di latta con una capacità di 20 kg d’olio;
– lu staru un contenitore capace di 16 kg di olio;
– la mina conteneva 8 kg d’olio;
– L’ottu pignateddhre 4 kg di olio;
– lu pignateddhru ½ kg di olio. Inoltre altri sottomultipli.
Aggiornamento
Siamo ritornati nell’Abbazia nell’aprile 2019 ed abbiamo potuto visitare il complesso quasi completamente restaurato dal FAI che ha avuto dalla Provincia di Lecce in concessione trentennale il bene nel 2012, con lo scopo di restaurarlo e riaprirlo al pubblico. Qui il nostro articolo aggiornatto
L’Abbazia Santa Maria di Cerrate dopo i recenti restauri
Un ringraziamento all’amico Mario Carlucci che ha collaborato con me nella ripresa delle immagini.
Bibliografia e sitigrafia:
Volantino esplicativo del FAI – Fondo Ambiente Italiano – www.fondoambiente.it (per contatti e prenotazioni tel. 0832 361176)
Teodoro Pellegrino, Terra mia – encicl. illustrata della terra d’Otranto antica e moderna – primo vol. -Editrice Salentina in Galatina 1970
Teodoro Pellegrino, Terra mia – encicl. illustrata della terra d’Otranto antica e moderna – primo vol. -Editrice Salentina in Galatina 1970
Giovanna Delli Ponti, Cerrate e il suo museo. Amm. Prov. di Lecce, ristampa 1/87 Editr. Salentina – Galatina
http://www.otrevie.com/index.php?option=com_territorio&task=view&id=69&sottoscheda=1&genere=chiesa&lang=it
Nota: tutte le notizie relative al “frantoio ipogeo” sono state tratte dal sito http://salentorurale.altervista.org/frantoi.htm
[…] la chiesa di Santa Maria d’Aurio (vedi QUI) o l’abbazia di Santa Maria a Cerrate (vedi QUI e QUI) innalzate nel XII secolo, mentre l’uso della bicromia nella costruzione degli archi […]
Che bello fare un viaggio nella mia infanzia !!! grazie
fracala@gmai.com
Piacere mio. Sarò felice di rifare l’articolo anche dopo il restauro in corso.
Saluti