“Nonostante i numerosi contributi apparsi negli ultimi decenni sulla storia artistica meridionale dei secoli XVI — XVIII alcuni centri pugliesi, storicamente importanti all’interno dell’assetto politico, giuridico, economico e militare, del Viceregno, sono tuttora quasi del tutto sconosciuti per ciò che riguarda la produzione artistica in generale, pittorica in particolare.
Uno di questi centri è Brindisi: città rarissime volte resa oggetto di studio per quel che concerne il patrimonio storico – artistico.
A seguito di un attento e, per quanto era possibile, completo lavoro di catalogazione della pittura sacra dei secoli XVI – XVII – XVIII a Brindisi, (..) sono ora in grado di offrire qualche elemento alla conoscenza delle presenze artistiche nella città.
Si tratta di alcuni ritrovamenti che confermano, ove ce ne fosse ancora bisogno, l’utilità, per la storia dell’arte meridionale, degli studi catalogici sistematici.
Degni di particolare attenzione, per la qualità e la specificità tematica, sono innanzitutto le due serie di dipinti dei quattro Evangelisti e dei quattro Dottori della Chiesa, ora nell’Episcopio di Brindisi.
Non si conosce la loro originaria collocazione ma, considerati i temi ed il particolare formato, non è da escludere che le opere fossero collocate ab antiquo in Episcopio, probabilmente commissionate dai vescovi di nomina regia, solitamente napoletani e spagnoli.
Pur in assenza di dati documentari, la loro provenienza napoletana è indubbiamente confermata dallo stile che riporta all’ambito di Fabrizio Santafede (*). Il confronto con opere sicuramente sue convince, anzi, a ritenere le otto tele dipinte dall’artista napoletano.
Gli Evangelisti
Il San Giovanni Evangelista richiama quasi letteralmente l’analoga figura che appare nella Vergine in gloria e Santi Giovanni Evangelista e Nicola della Cattedrale di Lucera. Simili i tratti somatici, lo sguardo rivolto al cielo in cerca d’ispirazione divina, la posizione delle dita che trattengono la penna, il lungo piede che fuoriesce dall’orlo ripiegato del panneggio; medesime le qualità cromatiche già toccate «dallo studio del colorismo veneto». Ma evidente soprattutto quella «sapiente mescolanza di manierismo semplificato e naturalismo eletto», tipica del Santafede, giustamente fatta derivare dalla interpretazione del pittoricismo fiorentino «riformato dallo studio dei veneti (Santi di Tito) in funzione di resa naturale di luci ed ombre se non vere almeno verosimili».
E quanto questo naturalismo si esprima attraverso un uso accorto della luce lo si vede nel San Luca, dove i tocchi chiari, che riflettono una fonte luminosa intensa e «soprannaturale», si evidenziano sull’incarnato delle mani, della fronte e del collo, sulle pieghe dei panni lanosi e pesanti, della manica destra sino alle estremità della cintola e del ginocchio.
Più scoperto è nel San Marco il ricordo di quei moduli tardo — manieristici di ascendenza michelangiolesca, che a Napoli furono diffusi da Marco Pino. Come è dato vedere anche nel San Matteo che, in sostanza, ripete lo schema compositivo adottato nel San Giovanni e nel San Marco. Ed è sicuramente santafediano quel tipico «modo di comporre distribuendo le figure nello spazio disponibile (occupandolo quasi per intiero) in modo semplice, anzi elementare» e quel «modo di conferire imponenza alle figure dei santi portandoli in primissimo piano quasi ad incombere sullo spettatore». Così come è cifra ricorrente del suo stile quella forma voluminosa dei panneggi che già De Dominici aveva rilevato indicandola nella «Vita di Fabrizio Santafede Pittore, ed insigne antiquario» come una delle riserve espresse nei suoi confronti «…perchè spesso gli andari dei suoi panni gonfiavano il personaggio… ».
Tuttavia, appare evidente, nell’ ampliarsi delle figure in rapporto allo spazio che si contrae, un certo recupero di monumentalità che riporta a modelli di Marco Pino, come il San Pietro della Galleria Borghese a Roma.
I Dottori della Chiesa
Alla serie tematica dei quattro Santi Evangelisti si ricollegano gli altri quattro dipinti dell‘Episcopio brindisino raffiguranti i Dottori della Chiesa.
Quest’ultimo ciclo, e per una più ricercata maniera di descrivere, e per una maggiore ricchezza di particolari, oltreché per le diverse dimensioni, appare più tardo.
I paramenti sacri finemente decorati e la spilla con pietra preziosa, che abbelliscono ed idealizzano la figura, di Sant’Agostino premiano la facile vena descrittiva e celebrano l’accademico disegno dell’autore; si confrontino gli stessi motivi riproposti nel San Nicola del già citato Vergine in gloria e Santi di Lucera, nel San Benedetto della Madonna col Bambino e Santi Benedetto, Mauro e Placido (Napoli, SS. Severino e Sossio).
Nel San Gregorio ritornano molti dei motivi della serie precedente: la figura del santo con il gesto della mano che regge la penna e di quella poggiata sul libro, lo sguardo in cerca d’ispirazione rivolto verso l’alto appena variano quelli del San Giovanni; la cui verità tradisce l’indubbia sapienza disegnativa, quale si esprime altresì nella minuziosa descrizione delle figure di San Pietro e di San Paolo rappresentati sui paludamenti, dei merletti della veste, delle pietre preziose, dello scorcio angolare del tavolo, della tovaglia damascata, della spalliera della sedia e delle cortine del fondale.
Ma dove il confronto con l’opera del Santafede appare più stringente è la tendenza verso il naturalismo, confermata nell’impianto compositivo santafediano proposto nel San Tommaso. L’episodio rappresentato della vita dell’aquinate è quello del 1273, quando, nella cappella di San Nicola di San Domenico a Napoli, mentre pregava di fronte al Crocifisso, sentì il Cristo che approvava la sua dottrina con la frase: «… Bene scripsisti de me Thoma». Il tema era già stato celebrato nella raffigurazione del Bene Scripsisti De Me Thoma dipinta da Santi di Tito nell’Oratorio di San Tommaso d’Aquino di Firenze nel 1753.
Nel S. Gerolamo, assorto nella lettura dei testi sacri, che è l’opera più emblematica del ciclo brindisino, traspare la fusione tra la componente intellettualistica e quella devozionale, che confermerebbe l’attenzione dell’autore ad attenersi scrupolosamente alle attese di un committente le cui esigenze spiritualistiche coincidevano con i canoni della riforma tridentina; la saldezza e l’equilibrio dell’impianto si coniugano perfettamente con la naturalezza e corsività della posa (vedi ad esempio il gesto della mano destra, il cui indice e medio sono impegnati a tenere il segno nel volume oggetto della assorta lettura), sottolineate dalla verità delle cose, il tavolo col bel tappeto damascato, i libri, il calamaio.
E’ proprio dello spirito post conciliare, questa riduzione delle raffigurazioni ad una dimensione più umanamente quotidiana pur nel rispetto della loro dignità, sostenuta non solo dai paramenti come nel S. Agostino e in S. Gregorio Magno, ma proprio da quel «naturalismo eletto», che traspare nella individuazione fisionomica e nella verità dei gesti.
Appare evidente, dunque, anche in queste due serie di dipinti quanto è emerso di recente della esperienza artistica del Santafede, che presto orientato a semplificare i moduli manieristici trovò il modo di dar corpo alla sua visione aperta alle istanze di contenutismo devozionale attraverso la lezione del naturalismo dei riformati fiorentini, con risultati che sono apparsi particolarmente significativi nella situazione artistica napoletana.
Più prossima al tempo della fase di maturazione la prima serie, più tarda la seconda, tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600, ma entrambe caratterizzate da quell’«elemento portante…, quello contenutistico riferentesi al nuovo tipo di ideologia riformata», che ne favorì il successo anche nella periferia del Viceregno.”
L’intero articolo è stato tratto da:
Massimo Guastella, Segnalazioni di pittura napoletana e un dipinto di A. Fracanzano a Brindisi.
Estratto da: ITINERARI DI RICERCA STORICA Pubblicazione periodica del Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età Contemporanea I – 1987
Note:
Fabrizio Santafede (Napoli, 1560 – 1634) è stato un pittore italiano, dell’epoca barocca, particolarmente attivo a Napoli, sua città natale.
Allievo dell’artista senese Marco Pino, che operò a Napoli nell’ultima parte della sua vita, tra il 1580 e il 1600 i suoi dipinti risentirono dell’impronta manierista tosco-veneta, calibrata e addolcita negli anni da un recupero di modelli lontani nel tempo, tanto da fargli meritare il “plauso universale, sì che ne fu chiamato il Raffaello napoletano” (continua su https://it.wikipedia.org/wiki/Fabrizio_Santafede)
Si ringraziano la Direttrice della Biblioteca Arc. “A. De Leo” K. Di Rocco e l’Economo Diocesano Mons. A. De Marco che hanno permesso la realizzazione del servizio