Giuseppe Marella
Società di Storia Patria per la Puglia
Estratto da: La prima arte normanna: architettura e scultura nel monastero di San Benedetto a Brindisi, in L’età normanna in Puglia. Aspetti storiografici e artistici dell’area brindisina, Atti del Convegno di Studi (Brindisi, 13 aprile 2013), Società di Storia Patria per la Puglia – sezione di Brindisi, Convegni, II, Rotary Intern. Club “Brindisi Appia Antica” Edizioni, Brindisi, 2013, pp. 143-192.
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Al pari dell’architettura, nel complesso benedettino anche la scultura propone un linguaggio in bilico tra tradizione locale e fermenti innovativi.
Una cifra di fondo attardata sul repertorio mediobizantino di timbro provinciale, tipica della Puglia preromanica, appare spesso forzata e rinnovata da un gusto nuovo e decisamente volto verso l’Europa romanza, un registro espressivo che accomuna il brindisino ai maggiori complessi normanni meridionali dello scorcio dell’XI secolo.
Ovunque sia stato riconosciuto – oltre a Brindisi, ad Aversa, Acerenza, Venosa, Mileto, Reggio Calabria, Carinola, Sant’Agata dei Goti e Sant’Angelo in Formis, Canosa – il nuovo linguaggio ostenta connotati antinaturalistici ed irrigiditi, linee spigolose e taglienti, un sacrificio della plastica corporea in favore della tettonica strutturale: caratteri che hanno indotto gli studiosi a parlare opportunamente di “stile bloccato” o “duro”. I soggetti rappresentati, spesso mutuati dalla koinè bizantina, sono inoltre caricati spregiudicatamente di un’evidenza che oscilla tra l’espressionismo drammatico, allucinato fino ai limiti dell’onirico, e la forzatura caricaturale.
Per lo “stile bloccato” gli esegeti hanno proposto una marca transalpina e l’esordio italiano nella cattedrale di Aversa, le cui parti normanne furono terminate probabilmente non oltre il 1090[1]. Valentino Pace, tra i primi ad individuarlo, ha motivato la pronta diffusione tra i cantieri coevi col prestigio della fabbrica aversana, e soprattutto in virtù di un «rivoluzionante milieu normanno», «che, durante la seconda metà dell’XI secolo, venne coagulando sul suolo dell’Italia meridionale le più diverse e feconde esperienze, dall’Occidente e dal Settentrione europeo, del Meridione mediterraneo»[2]. Lo studioso ha approfondito nel tempo i riferimenti oltralpini, fino a cogliere alcune matrici nelle fabbriche normanne di Caen e Bernay; al seguito dei nuovi conquistatori, dunque, giunse nel Sud Italia un insieme di proposte poetiche, di timbri stilistici e di schemi compositivi, che alla fine del secolo andò a fecondare una scultura bizantina già intrisa di movenze islamiche e modellata sulla scultura in bronzo[3].
Sulla scia di Valentino Pace si è mossa la critica successiva, con dei distinguo: se Francesco Aceto ha proposto ulteriori richiami francesi[4], Francesco Abbate ha preferito dilatare i riferimenti ad «un orizzonte dall’ampiezza vastissima: dalla Francia alla Germania, la Scandinavia, l’Irlanda, il mondo celtico e quello orientale»[5]. In posizione più defilata, Francesco Gandolfo ha invece privilegiato una pista autoctona, vedendo nel gruppo di sculture a “stile bloccato” l’ultimo frutto, il più maturo, di un filone linearistico ed espressionistico di latente matrice longobarda, che di lì a qualche decennio sarà travolto dall’ondata romanica[6].
Indiscutibilmente, nell’Italia normanna dei primi tempi l’impronta dello “stile bloccato” appare soprattutto in quei centri – Aversa, Acerenza, Venosa, Mileto, Reggio Calabria – in cui i nuovi dominatori, in accordo con la Chiesa di Roma, avevano affidato le massime cariche ecclesiastiche a benedettini di origine anglo-normanna[7]. Francesco Aceto ha dunque ben donde di interpretare la nuova scultura come «espressione diretta delle aspettative… di [tali] committenti ecclesiastici, accomunati dai medesimi indirizzi artistici e soprattutto dalla disponibilità mentale, in ragione della loro educazione e di radicate abitudini visive, a confrontarsi con tali modelli»[8].
Sull’esecuzione simultanea di tutta la veste scultorea brindisina non sussistono dubbi: oltre a sciorinare motivi ornamentali ben ricorrenti, tutti gli esiti – portale e architrave, stampelle del chiostro e capitello ad animali passanti dell’interno – sono accomunati dallo stesso tipo di intaglio, che, con incisioni poco profonde, definisce le forme in modo netto e tagliente, e conferisce preziosi effetti chiaroscurali anche a distese tabulari. […]
Il portale di marmo oggi incastonato nel fianco meridionale è senz’altro l’episodio più pregiato di tutto il corredo scultoreo.
In linea con gli intendimenti della Chiesa latina della Riforma, esso veicola nella pietra il messaggio salvifico elaborato dalle monache[9], riuscendo a fondere sincretisticamente il consueto campionario orientale desunto delle arti minori con l’onirico espressionismo dello “stile bloccato”. Anche nella struttura, a sesto rialzato su alti piedritti e tagliato dall’architrave sui battenti, può ritenersi un prodotto di transizione tra la tipologia architravata di stampo bizantino e quella archivoltata che si afferma nell’arte romanica.
Un intreccio vimineo a tre capi occupa tutta la superficie frontale; impreziosito da piccoli fori di trapano e da motivetti vegetali, simbolici e zoomorfi.
Nonostante il tempo è ancora possibile riconoscere un cane con il collare, un ariete, una pistrice, dei conigli e dei maiali, uccelli affrontati, farfalle etc.; figurine simili sono replicate sulla fronte dell’archivolto erratico del Museo Provinciale e risultano analoghe nella loro schematicità a quelle che appaiono sul coevo portale occidentale del San Giovanni al Sepolcro, sempre a Brindisi.
La canestratura ossessiva senza principio né fine pare priva di un’autonomia morfologica, propensa a fondersi con la struttura architettonica per camuffarla più che decorarla; un continuum fantastico che ingloba ritmicamente, nell’incessante ripetitività delle parti, forme animali di matrice iranica.
Sebbene il motivo dell’intreccio sia ampiamente diffuso in tutta l’arte medievale occidentale, incluso il romanico pugliese[10], nel portale brindisino l’insieme delle locuzioni dichiara un sapore islamico, recepito probabilmente attraverso la mediazione di oggetti mobili eburnei e metallici più che serici[11].
Gli intradossi degli stipiti ospitano invece una sequenza di palmette annodate ed inserite tra le anse di due listelli sinusoidali bizantineggianti; con le loro solcature poco profonde ma taglienti ritornano identiche nell’architrave reimpiegato nella chiesa di Sant’Anna[12] e, assieme all’intreccio, in alcuni capitelli del chiostro.
Suggestioni ancora maggiori provengono dall’architrave figurato incastonato in alto, sicuramente l’episodio artistico più ingente del complesso brindisino. Sovrastato, a mo’ di protezione, da un’aggettante cornice a pale d’acanto, il pezzo si articola in tre metope figurate delimitate da una cornicetta classica a perline e fuseruole.
Tutto trasporta verso l’Oriente favoloso: i soggetti rappresentati, i particolari iconografici, i giochi ornamentali e gli schemi compositivi rispecchiano consuetudini nate in Mesopotamia e nell’antica Persia e giunte nella scultura pugliese medievale grazie alla mediazione delle civiltà bizantina ed islamica[13].
Ogni scomparto è campito da una “caccia eroica”, in una sequenza con un cacciatore che infilza un leone nelle sezioni laterali ed un mostruoso ippogrifo in quella centrale.
Risalente al periodo protodinastico sumerico (circa metà III millennio a.C.), la scenetta dell’uccisione di belve feroci e di animali fantastici era consueta nell’arte orientale bizantina e persiana.
In Oriente, sin dalle origini, essa rimandava ad una mansione esclusivamente regale, e si traduceva in un’esaltazione concettuale della potenza indomita e vittoriosa del sovrano contro le forze maligne[14]. L’Occidente medievale mutuò il soggetto venatorio assieme al significato di fondo di vittoria del Bene sul Male, ma, con lieve variazione semantica, sostituì le Potenze Celesti cristiane ai sovrani orientali e lo collocò di preferenza sui portali delle chiese romaniche, spazi sacri invalicabili per il Demonio sempre in agguato[15].
Probabilmente il modello dell’architrave è da rintracciarsi in un avorio, vista la cura particolaristica delle figurazioni, e di provenienza islamica, per le lunghe tuniche pieghettate a larghe brache, i cappucci conici dei venatori – insoliti per un basileus bizantino – e la punta della lancia che fuoriesce dalle carni infilzate delle fiere[16].
In Puglia il gusto diffuso per gli avori orientali aveva, si è detto, favorito una produzione locale, di cui rimane forse memoria nel celebre olifante del British Museum[17].
Dal modello in avorio l’architrave si allontana però nella resa del rilievo, tabulare piuttosto che densa e preziosa, e nell’intaglio a potente sottosquadro, che, se non fosse per alcuni arcaismi – occhi a mandorla e con doppia o tripla linea di contorno, panneggio a pieghe parallele, la scansione di più piani di profondità, obliqui e digradanti verso il fondo – sarebbe piuttosto da accostare a certi manufatti del XIII secolo, come le lastre incrostate di Peregrino da Salerno nella cattedrale di Bari[18].
Di antica origine mesopotamica è il ribaltamento araldico della figurazione attorno ad un asse centrale, che nel trave però lascia agio a due variazioni: l’hom, l’albero sacro e della vita, è sostituito dal listello a perline e fuseruole, mentre risulta speculare alla prima immagine col leone non quella centrale ma l’ultima a destra[19].
Dalla mezzaluna fertile provengono ancora i mostruosi animali alati e i riccioli sovrapposti a mo’ di cavaturaccioli delle criniere leonine e delle capigliature umane[20]. Il motivo del leone o dell’animale alato che volge la testa verso l’aggressore è invece diffusissimo nell’arte persiana achemenide (secoli VI-IV a. C.), prima di venire fagocitato anch’esso, come tutti i precedenti, nella civiltà figurativa islamica[21].
Alcuni particolari, inoltre, allontanano il manufatto dalla codificata tradizione orientale e lo rendono un unicum nella scultura coeva. I tre personaggi denotano un’innovativa ricerca naturalistica spinta quasi ad intenti caratterizzanti. Nell’età differenziata, anzitutto, con i due laterali che presentano la barba della maturità e le ciocche ricciolute sotto i cappelli mentre il centrale le guance glabre della giovinezza ed una zazzera definita solo dal contorno continuo; ancora nei panneggi diversificati, a pieghe cadenti tra una cintura annodata nel primo personaggio ed a pieghe spezzate in una tunica senza cintura negli altri due; ne la fresca inserzione del cagnolino e del volatile, infine, colti mentre mordono la coda alle belve[22].
A scuotere l’intonazione fabulistica orientale sopraggiungono nel trave dei nuovi fremiti occidentali. Questi si scorgono facilmente nella deformazione quasi caricaturale dei due venatori laterali, dai volti camusi e dagli arti flessuosi che colmano l’orror vacui seguendo le linee strutturali; nei loro sorrisi caustici a labbra strette, nonché nel ritmo asmatico delle pieghe spezzate dei panneggi. Sigle grafiche che nel loro espressionismo riconducono inequivocabilmente allo “stile duro”. Francesco Gandolfo, propugnatore della tesi autoctona, ha proposto una relazione stringente con alcune sculture campane dello stesso periodo, soprattutto con la celebre lastra aversana di Sigfrido e il drago Fafner, che egli reinterpreta, al pari delle scene brindisine, come “caccia eroica” al leone[23].
Francesco Aceto, ha dal canto suo svincolato il trave brindisino dal contesto mediterraneo e lo ha posto in diretto collegamento, quasi ad anticiparle, con le manifestazioni inglesi della cosiddetta “Heredforshire School”, in particolare con le figure della vasca battesimale della chiesa di Santa Maria Maddalena a Eardisley
e quelle del portale della chiesa dei Santi Maria e David a Kilpeck[24];
in entrambi i casi si tratta di sculture più tarde di qualche decennio e pienamente romaniche nell’aggetto plastico, che ripropongono in maniera puntuale i tipi facciali taglienti e allucinati, i panneggi a striature parallele stretti da cinture, persino le punte di lancia che fuoriescono dalle carni trafitte. Magari, le sculture inglesi furono realizzate da artisti nordici che presero a modello quanto visto al seguito delle truppe crociate in Terrasanta o nel Sud Italia, e lo diffusero nell’altro polo normanno con un gusto più aggiornato.
Giuseppe Marella – Società di Storia Patria per la Puglia
[1] V. Pace, Campania XI secolo. Tradizione ed innovazioni in una terra normanna, in Romanico padano, romanico europeo, Atti del Convegno Internazionale di studi (Modena-Parma, 26 ottobre – 10 novembre 1977), introduzione di A. C. Quintavalle, Parma, 1982, pp. 225-256. Ad Aversa egli ha individuato il segno dello “stile duro” in diversi punti: nei capitelli del deambulatorio – in particolare nei tre con fiere a teste angolari convergenti, semimurati sotto le arcate del giro interno -; nelle inquietanti protomi umane sulla porta “dei canonici ebdomadari”; nella celebre lastra raffigurante forse Sigfrido che uccide il drago Fafner, ed infine in alcuni tralci vegetali. Da Aversa, secondo lo stesso studioso, l’innovativa tendenza sarebbe subito trasmigrata prima in altre fabbriche campane come Carinola, Sant’Agata dei Goti e Sant’Angelo in Formis, per giungere infine in Puglia, nel pulpito di Acceptus a Canosa. Pina Belli D’Elia, scettica per il pulpito canosino – ella attribuisce la maggiore “durezza” rispetto alle altre opere dell’arcidiacono ad un cambio delle maestranze e dei modelli mobili -, ha riconosciuto i segni della nuova tendenza, ad un livello più nobile e meno rude, proprio nel monastero brindisino, nel capitello figurato della chiesa (P. Belli D’Elia, Proposte innovative nella Puglia normanna: il monastero di S. Benedetto a Brindisi, in C. D. Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli studi della Basilicata in occasione del IX centenario della morte di Roberto il Guiscardo (Potenza-Melfi-Venosa, 19-23 ottobre 1985), Galatina, 1990, pp. 297-310, qui pp. 306-310 e nota 28) e nelle stampelle del chiostro (Ibidem, p. 301, nota 13). Francesco Aceto (Pittura e scultura dal tardo-antico al Trecento, in Storia del Mezzogiorno, XI, 1, Napoli, 1993, pp. 299-366, qui pp. 328-330) ha aggiunto al gruppo la plastica dell’incompiuta chiesa della Trinità di Venosa e della cattedrale di Acerenza – due edifici sintonizzati, come il brindisino, anche architettonicamente con quello aversano -, e alcune sculture calabresi di fine XI secolo, tra cui due mascheroni in Sant’Adriano a San Demetrio Corone, ed ancora una mensola ed un capitello conservati nel museo vescovile di Mileto.
[2] V. Pace e M. D’Onofrio, Italia Romanica. La Campania, Milano, 1981 p. 216.
[3] V. Pace, Roberto il Guiscardo e la scultura “normanna” dell’XI secolo in Campania, a Venosa e a Canosa, in C. D. Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, cit., pp. 323-330). Un riepilogo ultimo sullo “stile bloccato” in V. Pace, Arte medievale in Italia Meridionale. I: Campania, Napoli, 2007, pp. 53-58.
[4] F. Aceto, Pittura e scultura dal tardo-antico al Trecento, cit., pp. 328-330. Dietro suggerimento di Maria Pia Di Dario Guida (La stauroteca di Cosenza e la cultura artistica dell’estremo Sud nell’età normanno-sveva, Cava dei Tirreni, 1984) egli pone in collegamento diretto i pezzi di Venosa, di Acerenza, di Sant’Adriano a San Demetrio Corone e di Mileto in Calabria con la scultura di Saint-Bénigne a Digione.
[5] F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. I. Dai longobardi agli svevi, Roma, 1997, p. 146.
[6] F. Gandolfo, La scultura normanno-sveva in Campania. Botteghe e modelli, Bari, 1999, pp. 12-13. La proposta di un sostrato longobardo, risvegliato però dai nuovi apporti occidentali, è stata di recente accolta da Luisa Derosa, che aggiunge al gruppo anche due leoni stilofori di Oria, ora all’ingresso dell’attuale episcopio ma provenienti dalla cattedrale ricostruita nel corso dell’XI secolo (L. Derosa, Acroteri e stilofori pugliesi: alcune riflessioni a margine della cosiddetta “questione lombarda”, in A. C. Quintavalle (a cura di), Medioevo: arte lombarda, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma, 26-29 settembre 2001), Milano, 2003, pp. 565-573, qui p. 570.
[7] Terminata la conquista, Roberto il Guiscardo e gli altri maggiorenti normanni affidarono ad illustri benedettini anglo-normanni il compito di latinizzare i territori meridionali strappati ai bizantini, ponendoli a capo delle più importanti diocesi e abbazie. Tra costoro rintracciamo Guaimondo e Arnaldo, nominati vescovi rispettivamente di Aversa e Acerenza, e ancora Berengario, che divenne abate della Trinità di Venosa. Non a caso proprio nelle loro nuove fondazioni, inaugurate attorno agli anni Ottanta dell’XI secolo, si sperimentarono l’ardita tettonica anglo-normanna e la scultura dallo “stile duro” di marca transalpina. Erano normanni anche Robert de Grandsmenil, abate di S. Eufemia, al quale il Guiscardo affidò la fondazione di importanti chiese, e gli arcivescovi di Reggio Calabria Rangerio di Marmoutier e Arnolfo, tutti personaggi che contribuirono all’immissione dei francesismi nell’arte. Per gli aspetti artistici si rimanda a F. Aceto, Pittura e scultura dal tardo-antico al Trecento, cit., pp. 328-332; F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, I, cit., pp. 141-143; P. Belli D’Elia, I segni sul territorio. L’architettura sacra, in I caratteri originari della conquista normanna. Diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130), in R. Licinio e F. Violante (a cura di), Atti delle XVI giornate normanno-sveve (Bari, 5-8 ottobre 2005), Bari, 2006, pp. 251-286. Sul ruolo degli ecclesiastici anglo-normanni dopo la conquista: C. D. Fonseca, Le istituzioni monastiche e la conquista normanna. Gli episcopati e le cattedrali, in I caratteri originari della conquista normanna, cit., pp. 333-348; F. Panarelli, Le istituzioni monastiche legate alla conquista. I monasteri, in I caratteri originari della conquista normanna, cit., pp. 349-370. Per approfondimenti si veda anche W. Holtzman, Papsttum, Normannen und griechische Kirche, in Miscellanea Bibliothecae Hertzianae, München, 1961, pp. 69-79.
[8] F. Aceto, Pittura e scultura dal tardo-antico al Trecento, cit., p. 331.
[9] Recuperando la tradizione gregoriana altomedievale la Chiesa romana riformata vide nelle immagini uno strumento essenziale per indottrinare gli analfabeti, e nella scultura dei portali monumentali il mezzo privilegiato di predicazione. Cfr. A. C. Quintavalle, Immagine e racconto. Parole, figure e ideologie da Gregorio Magno a Bernardo di Chiaravalle, in A. C. Quintavalle (a cura di), Medioevo: Immagine e racconto, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma, 27-30 settembre 2000), Milano, 2003, pp. 17-22.
[10] Sull’intreccio nelle varie epoche artistiche cfr. G. Speake, Intreccio, in Enciclopedia dell’arte medievale, VII, Roma, 1996, pp. 398-404. Sulla sua diffusione nella Puglia romanica: A. Petrucci, Cattedrali di Puglia, Roma, 1976 (prima ed. 1960), pp. 39-40.
[11] Sui partiti decorativi islamici, largamente accolti nelle architetture medievali dell’Italia meridionale, si rimanda a U. Scerrato, Arte Islamica in Italia, in F. Gabrieli e U. Scerrato, Gli Arabi in Italia, Milano, 1979, pp. 275-280. Il Bellafiore (Architettura in Sicilia nelle età islamica e normanna (827-1194), Palermo 1990, pp. 83-84) individua nella musica e nella poesia le radici profonde dell’arte islamica, in cui l’insistente ripetitività delle parti, che concede al massimo qualche variazione timbrica, «non è sinonimo di povertà creativa ma rivelazione del perfetto che in quanto tale non è variabile».
[12] P. Toesca, Storia dell’Arte Italiana. Il Medioevo, II, Torino, 1965 (prima ed. 1927), p. 905, nota 63.
[13] I manufatti delle cosiddette “arti minori” – tessuti soprattutto, ma anche avori, metalli, legni, ceramiche, smalti etc. – di provenienza orientale e antico retaggio mesopotamico trovarono in tutto il Medioevo occidentale ampia circolazione, influenzando profondamente la sua civiltà figurativa. Particolarmente in Puglia, dove furono sempre attivi artigiani di diversa origine orientale (Cfr. P. Belli D’Elia, Alle sorgenti del Romanico, Puglia XI secolo, Catalogo della Mostra (Bari, Pinacoteca Provinciale, luglio 1975), Bari, 1987 (prima ed. 1975), pp. 256-261; T. Garton, Islamic elements in early romanesque sculpture in Apulia, in «Art and Archeology Research Papers», 4 (1973), pp. 100-116). Maria Stella Calò Mariani (Sulle relazioni artistiche fra la Puglia e l’Oriente latino, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, pp. 34-66), mette in rilievo come la domanda di manufatti suntuari orientali provenisse soprattutto dagli aristocratici e dagli ecclesiastici, e fosse soddisfatta da una organizzazione marinaresca inizialmente amalfitana e pugliese, poi genovese e veneziana. Sul repertorio decorativo si vedano soprattutto M. T. Lucidi (a cura di), La seta e la sua via, Catalogo della Mostra (Roma, 23 gennaio-10 aprile 1994), Roma, 1994; per la Campania, con spunti utili per la Puglia, l’ormai classico W. F. Volbach, Oriental Influence in the animal sculpture of Campania, in «The Art Bullettin», XXIV (Giugno 1942), pp. 172-80, e le voci in A. Cilardo (a cura di), Presenza araba e islamica in Campania, Atti del Convegno (Napoli-Caserta, 22-25 novembre 1989), Napoli, 1992.
[14] Cfr. E. Ascalone, I Sumeri, in La Storia dell’Arte. 1, Le prime civiltà, Milano, 2006, p. 90; G. De Francovich, Il concetto della regalità nell’arte sasanide e l’interpretazione di due opere d’arte bizantine del periodo della dinastia macedone: la cassetta eburnea di Troyes e la corona di Costantino IX Monomaco di Budapest, in V. Pace (a cura di), Persia, Siria e Bisanzio nel Medioevo artistico europeo, Napoli, 1984, pp. 78-105. R. Farioli Campanati, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia dal VI all’XI secolo, in I Bizantini in Italia, Milano, 1982, p. 218; G. De Francovich, La brocca d’oro del tesoro della chiesa di Saint-Maurice d’Agaune nel Vallese e i tessuti di Bisanzio e della Siria nel periodo iconoclastico, in Persia, Siria e Bisanzio, cit., p. 166.
[15] G. Duby, L’arte e la società medievale, Bari, 1986, pp. 351-355. Per la mente dell’uomo medievale le forze del maligno si presentavano sotto forma dei numerosi accidenti quotidiani, quali i fenomeni atmosferici e idrogeologici, le incursioni nemiche, le belve, etc.; le figurazioni mostruose nell’arte, dunque, avevano anche un movente apotropaico (F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, I, cit., pp. 63-64 e 146-147).
[16] In merito alle fonti dell’architrave, il Bertaux, ricercando aveva ipotizzato oggetti d’arredo orientali ma svincolati dalla tradizione bizantina (É. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris, 1903, pp. 476-477). Maria Stella Calò Mariani (Sulle relazioni artistiche fra la Puglia e l’Oriente latino, cit., pp. 52-57, in part. p. 53) e Umberto Scerrato (Arte Islamica in Italia, cit., p. 311) hanno visto una fonte dichiaratamente islamica; Pina Belli D’Elia (Proposte innovative, cit., p. 300) parla di un’ascendenza sasanide mediata da oggetti mobili bizantini e islamici.
[17] R. Farioli Campanati, La cultura artistica in Italia meridionale, cit., p. 259, scheda 95 (con bibliografia).
[18] P. Belli D’Elia, Proposte innovative, cit., p. 299. Il Wackernagel (Die Plastik des XI. Und XII. Jahrhunderts in Apulien, Leipzig, 1911, pp. 2, 47-48) ha datato l’architrave agli inizi del sec. XII e ha riscontrato affinità con le protomi del trono di Romoaldo a Canosa – negli occhi a mandorla – e con la figura centrale della cattedra di Elia – nei cappelli conici e nei panneggi a pieghe a “V” parallele -.
[19] L’hom, l’albero sacro e taumaturgico che solitamente nelle figurazioni orientali funge da asse di simmetria, deriva probabilmente dai due alberi della vita e della verità che, secondo i libri caldei, erano collocati dinanzi la dimora degli dei assieme ai mostruosi animali da guardia (vedi S. Ghirscham, Arte persiana, Parti e Sasanidi, Milano, 1962, p. 232). Nell’arte islamica viene spesso sostituito con un semplice palmetta, mentre nell’arte cristiana, ove appare a simboleggiare spesso l’Albero della Vita o l’Eucarestia, da motivi cristologici come viti a grappoli ed altro. Cfr. P. Belli D’Elia, La lastra di Pollice scultore ed altri fatti bitontini e non, in «Studi Bitontini», VI (1971), pp. 7-28, qui p. 23, nota 4.
[20] Legati alle più antiche religioni mesopotamiche, gli animali fantastici – alati, ibridi, bicorporati, bifefali ed altro ancora – furono sempre intesi in Oriente come manifestazioni delle energie vitali di origine divina. Nell’arte antica e medievale, tanto in Oriente quanto in Occidente, essi rivestirono una funzione di volta in volta ornamentale o più spiccatamente simbolica, con un’accezione benigna o maligna a seconda del contesto iconografico. Si veda H. Frankfort, Arte e architettura dell’Antico Oriente, Torino, 1970, pp. 16-17, 59 e 108; E. Porada, Antica Persia, Milano, 1962, pp. 47 e 169; R. Farioli Campanati, La cultura artistica in Italia meridionale, cit., p. 218; G. De Francovich, La brocca d’oro, cit. p. 166; U. scerrato, Arte Islamica in Italia, p. 389. Antichissima è anche la forma a cavaturaccioli dei riccioli, che compare in Mesopotamia già nelle sculture barbute del periodo protodinastico tra il 3000 e il 2340 a.C. e permane in tutta l’arte orientale fino all’età sasanide ed islamica (H. FRANKFORT, Arte e architettura, cit., p. 37 e tavv. 48, 49 e 57). Per quest’ultima si ricorda, tra i numerosi esempi, la criniera epidermica del celebre grifone bronzeo del Camposanto di Pisa, di nota provenienza araba (in U. Scerrato, Arte Islamica in Italia, p. 489, fig. 525).
[21] Cfr. E. Porada, Antica Persia, cit., p. 189 e tav. p. 187.
[22] Cfr. S. Jusco, IS. Jusco, Il maestro di S. Benedetto a Brindisi, in Il passaggio dal dominio bizantino allo stato normanno, Atti del secondo convegno internazionale di studi sulla civiltà rupestre medievale nel Mezzogiorno d’Italia (Taranto-Mottola, 31 ottobre – 4 novembre 1973), Taranto, 1977, pp. 271-290, qui pp. 281-282.
[23] F. Gandolfo La scultura normanno- sveva in Campania, cit., pp. 12-13.
[24] F. Aceto, Pittura e scultura dal tardo-antico al Trecento, cit., pp. 334-335; F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, I, cit., p. 178. Sulla vasca di Eardisley si veda L. Musset, Inghilterra normanna, Milano, 1983, p. 402 e foto 118-119. Sulle sculture del portale di Kilpeck, datate tra il 1135 e il 1145 e dagli apporti molteplici, Ivi, p. 410 e foto 129 ed U. Gesse, La scultura romanica, in R. Toman (a cura di), L’arte del Romanico, Milano, 1999 (ed. or. 1996), pp. 322, 323 e 337.