LE MAMMARE E LE LEVATRICI
Nella provincia salentina, così come in tutto il Meridione, fino alla metà degli anni cinquanta le donne partorivano preferibilmente in casa, assistite dapprima dalle mammare, in seguito dalle levatrici. La mammara era una figura tipica della cultura contadina meridionale, nel Salento detta anche “commare’, cioè consigliera delle donne gravide e delle partorienti.
Erano le mammare donne che svolgevano, senza titoli di studio, questo mestiere, spesso, ereditato da madre in figlia, conoscendo solo in maniera empirica l’anatomia femminile e gli elementi basilari della puericultura.
Seguivano le gestanti già prima del parto con consigli e gesti apotropaici. La donna gravida non doveva mai incrociare le gambe, la qualcosa poteva comportare il soffocamento del bimbo nel grembo; non doveva guardare gatti e cani randagi perché portatori di toxoplasmosi che avrebbe potuto generare malattie nel nascituro.
La gestante doveva avere a disposizione in casa un cesto con tutto ciò che poteva servire al bimbo una volta nato. La non presenza del cesto era considerata presagio di malaugurio.
Nel Salento si racconta che al momento del parto alcune mammare facevano stendere sul letto la gestante una volta tolto l’anello nuziale la circondavano di indumenti del marito: pantaloni, camice, giacche che avevano il potere di scacciare gli spiriti del male. Gli strumenti del mestiere erano una brocca colma di acqua pura e bollita, panni caldi e fasce. Era usanza che al parto assistessero la madre e la suocera della partoriente, ma anche vicine di casa, purché non nubili, a cui veniva demandato il compito di riempire i catini di acqua e scaldare i panni, ma soprattutto di pregare la Madonna e Sant’Anna affinchè alleviassero i dolori della partoriente.
Sempre alla mammara spettava il compito di benedire, lavare e fasciare il bambino, per poi deporlo nella culla nella quale avevano fatto scivolare alcuni amuleti magici, al fine di preservare la sua salute. L’acqua del primo bagnetto, se il neonato era una bambina, veniva gettata nel camino di casa, nel caso di un maschio all’esterno dell’abitazione. In tempi antichi, qualora il neonato fosse in pericolo di vita era la stessa mammara che provvedeva a somministrargli il battesimo, pratica questa, dapprima osteggiata dalle autorità ecclesiastiche, in seguito regolamentata con il Concilio di Trento ( 1563) in caso di premorienza dei neonati. Era tuttavia una donna che godeva di rispetto e di grande autorità, a cui era riconosciuto un ruolo primario durante il battesimo.
Spesso, soprattutto in presenza di famiglie contadine, svolgeva tale attività senza compenso, ricevendone in cambio beni di consumo. Ma alla mammara ci si rivolgeva anche per praticare aborti, là dove le difficoltà economiche della famiglia non consentivano di proseguire la gravidanza. Nella cultura contadina questo suo potere di aiutare a nascere, ma anche di procurare la morte era interpretato come qualcosa di magico. Addirittura nel diciottesimo secolo le mammare venivano chiamate per accertare la verginità di promesse spose o l’avvenuto stupro.
La cultura delle mammare era tuttavia molto approssimativa, basata su una sommaria conoscenza dei poteri delle erbe, ma allo stesso tempo molto folcloristica, intrisa di preghiere e di invocazioni fra il sacro e il pagano. Alla metà dell’ottocento il sempre più crescente numero di abusive che esercitavano tale mestiere, ma soprattutto l’alto tasso di mortalità neonatale e infantile, impose la necessità di regolamentare tale attività. Le mammare furono sostituite dalle levatrici (fig. 1 ), sostantivo onomatopeico per indicare coloro che “levavano” il bimbo dal corpo della donna incinta. Le levatrici erano donne istruite che avevano frequentato corsi professionali specifici e svolgevano tale attività dapprima come libere esercenti.
La legge sanitaria del 1888 al fine di dare assistenza gratuita a tutta la popolazione, impose ai Comuni la nomina attraverso un bando pubblico, di levatrici condotte fornite di diploma. Tra esse si ricordano Angela De Mauro (fig. 2) levatrice condotta a San Pancrazio Salentino nel 1918
e Angela Cangelosi levatrice condotta a Tuturano nel 1928 (figg. 3-4).
Era fatto obbligo alle levatrici di seguire gratuitamente la donna incinta durante la gestazione e il parto, e, in caso di difficoltà, chiedere l’intervento del dottore.
Nei piccoli centri e in località di campagna, il ruolo della levatrice, spesso madrina del neonato (fig.5), era pari a quello del parroco, del sindaco e dell’autorità militare.
LE BALIE
Mestiere molto antico, oggi completamente estinto, è quello delle balie, puerpere per lo più giovani a cui venivano affidati, dietro compenso, neonati per l’allattamento.
Fino agli inizi del novecento era consuetudine nelle famiglie più agiate, affidare i neonati alle balie.
Le motivazioni che spingevano a intraprendere tale scelta erano molteplici, da quella più effimera – la nobile puerpera considerava l’allattamento disdicevole per il proprio corpo – a quelle dettate da motivi più seri, quale la mancanza di latte, la malattia o addirittura il decesso della madre per complicazioni avvenute durante il parto.
Erano le balie donne semplici che avevano appena partorito (fig. 1), le quali, spinte dalle ristrettezze economiche della propria famiglia, si recavano in città dove risiedevano famiglie più agiate, abbandonando la campagna e spesso i propri figli, per questo venivano aspramente criticate dalla autorità ecclesiastica del paese.
Svolgevano la propria mansione a domicilio, ma anche presso la propria abitazione, in questo caso la balia allattava contemporaneamente il proprio figlio e quello affidatole (fìg.2) che, crescendo continuava a frequentare i figli della balia che, per consuetudine, venivano chiamati fratelli di latte.
I bambini rappresentavano per la balia, comunque, una fonte di ricchezza sia quando questa provvedeva all’allattamento di neonati di famiglie umili, dalle quali veniva ripagata con beni in natura, sia quando erano le famiglie agiate che si rivolgevano a lei dietro compenso in denaro. Il salario in questi casi era di solito ottimo, sia pure circoscritto nel tempo. Altrettanto accogliente era il trattamento che la balia riceveva presso la famiglia del neonato da allattare. Doveva essere la balia una donna sana e robusta, per cui le veniva garantita una buona alimentazione, funzionale alla nutrizione del neonato. In casa delle famiglie nobili aveva un posto di privilegio rispetto al personale di servizio.
Le pubbliche amministrazioni (fig.3), ospedali e orfanotrofi ricorrevano spesso all’ausilio delle balie per allattare gli orfani, i bambini abbandonati al momento del parto, ma anche gli “esposti”. Come documentato da atti ufficiali, in questo caso le balie dovevano essere provviste di certificato attestante il buono stato di salute, rilasciato dal medico condotto del paese o dall’ufficiale sanitario. Per tali prestazioni ricevevano un salario.
Accanto alle balie da latte vi erano anche quelle donne che si prendevano cura dei neonati senza allattarli, in questo caso veniva dato loro il nome di balie “asciutte” (fig.4).
LE MESTRE O “MESCIE”
Erano donne quasi sempre poco istruite che in tempi antichi, in una società contadina, quando non vi erano ancora asili pubblici nè tantomeno privati, avevano il compito di intrattenere i bambini (figg.1-2) in assenza dei genitori, impegnati nel lavoro dei campi.
Al mattino presto bambini e bambine, quest’ultime fornite di grembiule colorato, venivano accompagnate in casa della “mestra”. L’aula comune era costituita dalla stanza di ingresso della casa dove, lungo i muri erano stati già sistemati piccoli banchetti o sedioline, comprati alla fiera del paese e portati dai genitori all’inizio dell’anno. Al centro della stanza era una sedia più grande dove trovava posto la “mestra” fornita spesso di una asticella di legno per apostrofare i piccoli indisciplinati. Il corredo dei bambini era un panierino con dentro un bicchiere di latta e la merenda che consisteva in fichi secchi, un pezzo di pane con olio sale e pomodoro o con marmellata. Alcuni bambini, i cui genitori erano impegnati tutto il giorno in campagna, si intrattenevano fino all’imbrunire, consumando il pranzo con la “mestra”.
Il compito della “mestra” era quello di intrattenere i piccoli con favole, filastrocche e canzoncine, ma soprattutto con preghiere. Le “mestre” più attente insegnavano a leggere e a fare i conti o, per sollecitare la loro attenzione, costruivano con fogli di carta piegati e colorati, uniti a volte ad un filo o ad una bacchetta di legno, modelli di animali, aeroplanini, fiori secondo la tecnica degli origami. Alle bambine si insegnavano i primi rudimenti dell’arte del ricamo.
D’estate l’insolito asilo si riversava sulla strada adiacente alla porta di casa della “mestra”, dove i bambini si sbizzarrivano in giochi: la cavallina, guardia e ladri, il gioco del silenzio, moscacieca, nascondino, palla prigioniera e tanti altri (figg.3-4).
RACCOGLITRICI DI FICHI
Il clima favorevole rendeva nel Salento particolarmente rigogliose le piantagioni di alberi di fico.
In estate mentre gli uomini erano impegnati a raccogliere i frutti dagli alberi di fico, inerpicati sulle scale, le donne li raccoglievano con l’aiuto di un bastone ad uncino che aveva la funzione di abbassare i rami alla loro portata, per poi riporli nei panieri. Da quel momento iniziava per le donne, molto spesso anziane, un duro e lungo lavoro finalizzato alla confezione di un prodotto che, in parte serviva per il fabbisogno quotidiano della famiglia, quale pasto per i braccianti o merenda per i bambini, ma anche quale dolce da gustare nei giorni di festa. Le donne spesso davanti all’uscio della propria abitazione, con l’aiuto di un coltellino, spaccavano in due i fichi (fig.l)
e li esponevano al sole su tappeti di canne (fig.2),
avendo cura di ritirarli al tramonto per proteggerli dall’umidità (fig.3).
Una volta che i fichi si erano essiccati li condivano con mandorle, alloro e scorze di agrumi, a volte pezzi di cioccolato e li riponevano in contenitori detti “capasoni”. La prelibatezza del prodotto e la conseguente grande richiesta, spinsero alcuni produttori a impiantare dei veri e propri laboratori in cui venivano impiegate giovani donne per il confezionamento di cestini di fichi da spedire nell’Italia settentrionale ed anche all’estero. Rinomata era a Ostuni la fabbrica di Felice Montanari (figg.4-6), attiva fino alla fine degli anni cinquanta.
LE RACCOGLITRICI DI OLIVE
Il paesaggio agricolo della provincia salentina è dominato ancora oggi, sia pure in minor misura rispetto al passato, da distese di ulivi secolari che, in autunno, si vestono di bianche reti su cui si depositano i frutti che, una volta raccolti, vengono trasportati nei frantoi, per ricavarne l’olio. La attività della raccolta delle olive, fino agli anni cinquanta del secolo scorso era riservata, in massima parte, alle donne giovani, anziane, sposate, senza storia, senza nome, dai dodici ai sessanta anni, che uscivano all’alba dalle proprie abitazioni e percorrevano a piedi (fig.1), o a gruppi sui traini chilometri per raggiungere gli uliveti.
Il fattore, per conto del proprietario del podere, impartiva gli ordini alla caposquadra che aveva ingaggiato le lavoratrici che, divise in squadre, venivano fornite di un cesto comprato dal padrone, il quale ne tratteneva il costo dalla paga giornaliera, con il diritto da parte delle donne di portarselo a casa a fine lavoro. In tempi più antichi le olive si raccoglievano in un’ampia tasca che la donna portava cucita sulla gonna o legata ai fianchi.
La raccolta delle olive era un lavoro molto faticoso che poteva durare diversi giorni impegnando le lavoratrici dalle prime ore dell’alba al tramonto. Le donne che abitavano molto lontano dal podere venivano ospitate in caseggiati bui e malsani. Le lavoratrici olivicole erano donne forti dalla tempra robusta che spesso portavano con loro sui campi i figli più piccoli da allattare, mentre i figli più grandi le aiutavano nella raccolta. Subivano numerose frustrazioni ed erano consapevoli dello sfruttamento a cui erano assoggettate, con un salario che quasi sempre era pari alla metà di quello degli uomini. Le olive venivano raccolte a mano direttamente dal terreno (figg.2-5), schiena curva, grande sforzo di braccia e di gambe, sotto lo sguardo attento della caposquadra che dettava il ritmo del lavoro.
Spesso le donne si aiutavano con un uncino per avvicinarsi i rami più bassi colmi di frutti, mentre gli uomini inerpicati su alte scale raccoglievano le olive dai rami più alti. Nonostante ciò a fine raccolta le olivicole ritornavano alla propria casa con allegria e soprattutto con la consapevolezza di aver messo da parte un gruzzolo che sarebbe servito per le ragazze non sposate a preparare la dote.
Oggi la raccolta delle olive si avvale di macchinari specializzati che alleviano il lavoro delle donne, pur conservando quell’atmosfera di convivialità che la cultura contadina ci ha tramandato.
LE RACCOGLITRICI DI UVA
La vendemmia delle donne. Fin dai tempi antichi la raccolta dell’uva, momento focale della cultura della vite, è sempre stata appannaggio delle donne. In realtà nel Salento le donne entravano in funzione già al momento di piantare le viti selvatiche (barbatelle) nei solchi aperti nel terreno (fig.l) dagli uomini con l’ausilio degli animali.
Ma è la raccolta dell’uva che coinvolgeva emozionalmente tante donne giovani e anziane (figg.2-3) che, insieme agli uomini, vedevano coronare un duro lavoro.
Nel mese di settembre la mattina all’alba era un lungo corteo di donne che dal paese raggiungevano a piedi i campi coltivati a vigneti, per poi dirigersi al filare a loro assegnato. Le donne, con il capo coperto da un fazzoletto annodato dietro la nuca, raccoglievano i grappoli d’uva nel grembiule per poi svuotarlo in antico in un cesto di paglia, oggi in un catino di plastica per essere svuotato a sua volta su di un carro (fig.4) che raccoglieva il frutto dell’intera giornata da trasportare alla cantina.
Le donne cantavano, ridevano quasi per esorcizzare la stanchezza. Continuavano a lavorare dalle prime ore dell’alba fino all’imbrunire con una breve pausa per consumare un frugale pasto all’ombra di un albero di ulivo. Il ritorno a casa era più mesto per la stanchezza, ma più ricco per l’uva che il padrone del podere aveva loro regalato.
Nell’entroterra della provincia di Brindisi la vendemmia era particolarmente sentita. Nei vigneti si instaurava uno stretto rapporto di convivialità che si trasferiva poi nelle rispettive famiglie. Era quello della vendemmia un evento fortemente caratterizzante della vita contadina carico di gioia e, nonostante la fatica, di spensieratezza (fig.5) che rievoca segni culturali, artistici e religiosi di un antico passato in cui l’uva e il vino erano protagonisti.
Oggi, come ieri la vendemmia delle donne, nonostante l’industrializzazione, è un rito che si ripete in alcune realtà salentine. A Brindisi in località Iaddico nelle tenute Rubino la rievocazione della vendemmia è una emozione indescrivibile che affascina.
LE GUARITRICI
Nella provincia di Brindisi, così come in tutto il Salento, fin dall’antichità le classi popolari si affidavano per preservare la loro salute alle guaritrici, donne sapienti che non avevano nulla di magico e i cui metodi di intervento erano basati su ritualità e su prodotti della terra: erbe e piante la cui conoscenza si tramandava da generazione in generazione, da madri in figlie. Le guaritrici non possedevano una preparazione scientifica, ma erano in grado di diagnosticare malattie e spesso risolverle. Molte di queste donne prestavano il loro contributo gratuitamente non accettando denaro ma ricevendo, in cambio delle loro prestazioni, offerte di generi alimentari, soprattutto dalle classi meno abbienti.
Vasto era il loro campo di intervento, così come altrettanto ampio era l’uso di erbe che loro stesse raccoglievano nei campi vicini al paese: alloro, aglio, malva, erba parietaria, prezzemolo, ma anche melograni, corbezzoli.
I pazienti che venivano affidati alle loro cure erano spesso bambini. Pratica molto diffusa era quella della sverminazione. I vermi intestinali dei bambini venivano guariti con spicchi di aglio e rametti di ruta, secondo l’antico detto popolare che recita “la ruta ogni male stuta”.
Se questo rimedio non fosse stato sufficiente la guaritrice faceva stendere il bambino su di una panca e con l’indice e il medio intinto nell’olio, tracciava tre segni di croce sulla pancia del piccolo, accompagnando questi gesti con preghiere: Padre nostro, Avemaria, e Gloria Pater in un latino approssimativo, ma anche con scongiuri e cantilene in un dialetto incomprensibile.
Si ricordano anche quelle guaritrici che per togliere il malocchio dai bambini intervenivano con il vino. Bisognava bagnare un fazzoletto con il vino che gocciolava dalle botti nelle cantine e passarlo sul viso del bambino senza che il cantiniere se ne accorgesse, al fine di non vanificare l’efficacia dell’intervento.
Così anche le ferite infette dei piccoli venivano guarite lavando la parte con acqua e disinfettandola con l’alcool in cui si era fatto sciogliere lo zucchero. Tutte queste pratiche erano accompagnate da preghiere, formule magiche, il più delie volte incomprensibili e acqua benedetta, anche se la Chiesa mostrava scetticismo nei confronti di queste pratiche magico-curative.
Acqua benedetta e segni di croce accompagnavano anche i rimedi naturali per la cura degli ascessi dentali, per gli orecchioni e per l’herpes zoster popolarmente noto come “fuoco di sant’Antonio”.
Le guaritrici intervenivano anche sulle partorienti con tisane per lenire i dolori del parto, ma erano in questo osteggiate dalla credenza popolare religiosa che predicava che le donne a causa del peccato originale dovevano partorire con dolore.
Frequente era anche il loro intervento nelle affezioni respiratorie. La pratica consisteva nell’applicare sugli organi interessati delle “sanguisughe (hirudo medicinalis) che, provviste di ventose, si attaccavano e succhiavano il sangue. Veniva in questo modo provocato un salasso che decongestionava gli organi: bronchi, polmoni, ma anche fegato. Alla categoria delle guaritrici sono da ascrivere anche quelle donne, numerose, alle quali venivano attribuiti poteri occulti finalizzati a curare le persone colpite dal “malocchio”, superstizione popolare molto diffusa nel folcloristico Salento (fìgg.1-4).
Vittime potevano essere sia donne che uomini colpiti da sguardi invidiosi il cui potere malefico procurava loro spossatezza, mal di testa, depressione. Vari erano i rimedi utilizzati per neutralizzare il malocchio, dal sale, all’olio accompagnati sempre da preghiere. Il cerimoniale più utilizzato era quello della prova dell’olio: sulla testa della persona che si credeva affetta dal malocchio, si poneva un piattino con acqua e tre gocce di olio, se l’olio si scioglieva il malocchio veniva neutralizzato.
Nel Salento le guaritrici godevano di molto rispetto presso la classe sociale più povera. Erano tuttavia oggetto di vessazione da parte dei medici e a volte erano accusate anche di stregoneria; furono comunque donne che hanno fatto parte della nostra antica cultura salentina.
LE PREFICHE
Prefiche dal latino praefica (donna preposta) erano quelle donne che per mestiere piangevano i morti, accompagnandoli nell’ultima fase del ciclo della vita umana (figg.1-5).
La loro presenza, già documentata nell’antico Egitto, era una usanza tipicamente greca. Nella Grecia classica (V – IV sec. a. C.) le ricche famiglie attiche, in occasione dei funerali dei propri congiunti, si imponevano un controllo dei propri sentimenti, la cui esternazione sarebbe stata indice di debolezza interiore. Allo stesso tempo i parenti, appaltando alle prefiche il dolore per la morte dei propri cari, cercavano in qualche modo di esorcizzare la paura della morte. Anche nell’antica Roma queste donne avevano un ruolo rilevante; a loro durante i funerali spettava un posto di privilegio davanti al feretro che accompagnavano con canti e lamenti. Tale usanza già dai primi del milleottocento era molto diffusa in tutto il Salento, soprattutto nei paesi della Grecìa salentina, dove rivestiva anche un ruolo folcloristico.
Erano, comunque, le prefiche donne prezzolate che lavoravano quasi sempre in coppia e che avevano appreso questo mestiere fin da giovinette abituate ad esternare la propria afflizione con drammaticità. Molto eloquente a tale proposito una favola di Esopo, scrittore greco, che delinea la figura delle prefiche come coloro che per amore di denaro, non si preoccupano di fare commercio delle disgrazie altrui. Il loro lavoro si esercitava in occasione di eventi luttuosi, sia in casa del defunto, che spesso non conoscevano, che durante i funerali, in cui indossavano abiti e veli neri, e inscenavano lamenti e pianti la cui intensità era proporzionale alla retribuzione pattuita.
Le classi più agiate potevano permettersi più prefiche a cui affidavano notizie sulla vita del defunto e sulle sue virtù che venivano rese pubbliche in forma di lamenti, pianti e grida strazianti davanti al feretro, strappandosi i capelli e lacerandosi le vesti. La prefica nei suoi lamenti, fingendo di parlare con la persona defunta, impersonava ora la madre, ora la figlia, ora il marito, ora la moglie. Quello della prefica era pertanto un vero e proprio mestiere esercitato non solo nella Grecìa salentina, ma in tutto il Salento, anche nella provincia di Brindisi.
LE IMPAGLIATRICI
Antica è l’attività artigianale dell’impagliare fibre vegetali o intrecciarle per la produzione di cesti. In passato l’arte dell’impagliare era in stretta simbiosi soprattutto con le attività agricole, che richiedevano contenitori per il trasporto e la conservazione dei prodotti della terra. Le impagliatrici erano di solito quelle donne che, non avendo dimestichezza con l’ago, terminate le faccende domestiche, si ritrovavano d’estate davanti all’uscio della propria abitazione, d’inverno in un angolo appartato della casa, spesso al freddo, ad intrecciare giunchi, canneti palustri, virgulti di ulivo o di lentisco (figg.1-3).
In passato usavano solo spighe di grano che avevano precedentemente raccolto nelle campagne vicine al proprio paese dopo i lavori di mietitura. Le impagliatrici per rendere più malleabile la materia, prima la immergevano nell’acqua per poi lavorarla, al fine di limitare le ferite alle mani che rendevano tale lavoro sempre più duro. Gli arnesi del mestiere erano pochi ma essenziali: le cesoie da giardiniere e un rotolo di filo di ferro molto sottile; non usavano colla, nè chiodi. Stava poi alla creatività dell’artigiana sbizzarrirsi in forme e varietà di colore, accostando legni diversi, dando forma a contenitori.
Agli inizi del novecento l’attività della impagliatrice era molto fiorente, in alcuni paesi della provincia di Brindisi. La tradizione vuole che le famiglie, specie quelle contadine, si facessero confezionare cesti, canestri, cofani, fuscelli per trasportare e conservare verdure, frutti, ortaggi, pane ed altre derrate alimentari, ma anche graticci per seccare pomodori e fichi. Era questo un mestiere molto faticoso che le artigiane esercitavano con pazienza, perizia e buon gusto intrecciando ramoscelli di vario colore (fig.4).
Le impagliatrici realizzavano anche scope utilizzando steli flessibili, ma resistenti come il miglio e la mortella. Ancora oggi nelle botteghe di alcuni borghi salentini non è raro imbattersi in cesti colorati (fig.5) lavorati a mano che attirano l’interesse del turista.
LE RETARE
In un paese di mare come Brindisi le mogli e le figlie dei pescatori svolgevano un importante ruolo nell’ambito della economia familiare, aiutando i mariti e i padri in lavori collaterali alla pesca. Negli stretti vicoli del quartiere marinaro denominato “Sciabbiche” affacciato sul porto interno, fino agli inizi degli anni settanta, le donne erano impegnate alla lavorazione o al rammendo delle reti da pesca e alla preparazione delle esche, alleviando in qualche modo il duro lavoro di padri e mariti pescatori.
La lavorazione e il rammendo delle reti richiedeva molta abilità, sia pure nella sua monotonia, a cui le donne supplivano con chiacchiere e canti pieni allegria. Non era un lavoro solitario quello delle retare; soprattutto nel rammendo le madri si facevano affiancare dalle figliole che, in questo modo, apprendevano un mestiere. A Brindisi si ricorda Maria Romanelli, abile retara (figg.1-2) che, davanti all’uscio della propria abitazione, insegnava alle giovinette del quartiere e non solo, un lavoro che richiedeva attenzione e tanta pratica, ma soprattutto utile per l’economia familiare.
Per arrotondare il magro bilancio della famiglia le retare lavoravano anche su commissione. Il committente dava loro un certo quantitativo di spago che poi doveva essere riportato con lo stesso peso come rete (fig.3).
LE TABACCHINE
Una esperienza lavorativa che coinvolse in maniera totalitaria tutto il Salento dalla provincia di Lecce a quella di Brindisi fu la coltivazione del tabacco, in cui furono impegnati uomini e donne, quest’ultime con maggiore responsabilità, tanto che nell’immaginario popolare la coltivazione del tabacco viene identificata con le tabacchine.
Gli uomini nei mesi di gennaio e febbraio preparavano nei campi i solchi in cui spargevano i semi, da quel momento entrava in funzione l’operato delle donne. Erano le donne ragazze dai quindici ai trenta anni, che con la schiena china, dall’alba al tramonto, interravano le piantine prelevate dal semenzaio; erano le donne che svolgevano lavori di sarchiatura; erano le donne che innaffiavano (fìg.l);
erano le donne che raccoglievano (fìg.2) le foglie in grandi cesti che, poi, scaricavano nei cortili delle abitazioni comuni;
erano le donne che infilzavano le foglie di tabacco con grossi aghi (fìgg. 3-4) e le ponevano al sole per essiccare.
Da quel momento entrava in funzione il lavoro dell’immagazzinamento che veniva svolto nei depositi dalle manifatture a partire dal mese di ottobre. Nelle manifatture tabacchi le donne svolgevano un ruolo determinante già dalla metà del XIX secolo. “Andare al tabacco” voleva dire essere assunte nella manifattura che, malgrado la fatica e le umiliazioni era considerata una situazione quasi di privilegio, potendo le tabacchine contare su un salario fisso.
All’interno della fabbrica (figg.5-6) ciascuna tabacchina svolgeva un ruolo ben preciso sotto la stretta vigilanza della caposquadra da cui era stata ingaggiata per conto del titolare dello stabilimento.
In relazione alla qualifica si distinguevano in cardatrici, cernitrici, spianatrici, torchiatrici per la confezione delle ballette di tabacco. In fabbrica un ruolo rilevante era svolto dalla caposquadra (mestra o mescia) (fìg.7) che controllava l’orario di arrivo e di uscita delle operaie, scandiva il ritmo di lavoro, impediva che dialogassero tra di loro o che durante il lavoro bevessero, in quanto l’acqua poteva danneggiare le foglie di tabacco.
Si racconta che solo alle donne che avevano appena partorito fosse concessa una pausa per allattare “in loco” i propri neonati che erano dati in custodia ad una balia. Alla fine dell’ottocento, malgrado il notevole sviluppo raggiunto dall’attività del tabacco nel circondario di Lecce e di Brindisi, le tabacchine continuarono a lavorare in ambienti malsani e freddi, intrisi dalle polveri prodotte dalle varie fasi di lavorazione del tabacco, elementi questi che procuravano malattie respiratorie.
Questa condizione di sudditanza, il crescente aumento delle malattie professionali, la non imparzialità sulle assunzioni e sui licenziamenti, erano solo alcune fra le cause che già agli inizi degli anni venti del secolo scorso spinsero le tabacchine, insieme con i braccianti, a ribellarsi, astenendosi dal lavoro e dando inizio a rivendicazioni e rivolte operaie che sfociarono nel sangue, il 25 maggio del 1935, con il tragico evento della morte di cinque operaie (fig.8) a Tricase, fulcro della attività tabacchicola.
Le lotte continuarono e il 24 settembre del 1945 a Lecce provocarono altre tre vittime. Gli eventi luttuosi richiamarono alla realtà molte donne; le rivendicazioni si fecero sempre più aspre; le manifatture di tabacco continuarono a produrre, anche se il futuro era sempre più incerto, soprattutto nel brindisino, a Latiano, a San Vito dei Normanni, a Ostuni, paesi in cui, agli inizi del novecento, la coltivazione del tabacco era stata considerata una risorsa agricolo-economica.
La crisi delle manifatture di tabacco era ormai segnata. L’attacco della peronospora nel 1961 e la liberalizzazione della coltivazione della pianta cancellarono le aspirazioni di tante tabacchine che persero il posto di lavoro. Agli inizi degli anni ottanta le manifatture chiusero e di loro restano grandi ambienti spesso abbandonati, ma carichi di storia. Oggi le tabacchine non ci sono più, ma il loro nome resta legato alle prime lotte proletarie femminili del novecento.
Donne di Brindisi che hanno avuto successo nel lavoro
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A questo link è possibile leggere la prima parte di questo lavoro
Donna e lavoro. Tra vecchi mestieri e nuove professioni – Mostra fotografica 1^ parte
Ringraziamenti:
- alle organizzatrici della Mostra: D.ssa Angela Marinazzo e Prof.ssa Dina Nani, che hanno consentito la pubblicazione di tale evento sul blog;
- agli amici Mario Carlucci e Giuseppe Greco che hanno collaborato
Bei ricordi di nicchie storiche e di vita; molto interessante. Complimenti. Giovanni Libardo
Grazie. Non dimentichi di visitare la mostra nel bellissimo Chiostro di S. Paolo.
Buongiorno
sono il presidente dell’associazione “La Luce” che gestisce un micro museo ed archivio storico a Mesagne in Piazza IV novembre 2; stiamo raccogliendo documenti e notizie sulla nascita delle centrali elettriche nel nostro territorio. Vorrei contattarLa al più breve per condividere con Lei quanto è di Sua conoscenza.
Grazie per la lettura ed attendo Sue.
Antonio ing. Summa 347 3501708
tel. 0831 1707275