“L’ex Palazzo Cavaliere di proprietà del Monastero Benedettino di San Pietro di Ostuni è stato destinato a Museo di Arte Sacra in concerto con la Parrocchia di Ognissanti di Mesagne con finanziamenti Regionali (Del. CIPE N. 3/2006), con soggetto Attuatore il Comune di Mesagne, la supervisione e il coordinamento di madre Anna Attanasio e don Angelo Argentiero, venuto a mancare nel settembre del 2014, e l’avv. Mario Sconosciuto in qualità di delegato in tutto dal Monastero di San Pietro in Ostuni.” (1)
Palazzo Cavaliere è posto nell’affascinante Piazza Orsini in cui sorgono i monumenti più importanti della città: il castello Normanno Svevo, la chiesa di Sant’Anna, palazzo Cavaliere, il giardino della chiesa Matrice. La piazza costituisce il cuore pulsante della città e ospita quasi tutte le rassegne culturali e di spettacolo.
Piazza Orsini
Le suggestive immagini di Piazza Orsini illuminata
Palazzo Cavaliere
Fu elevato nel periodo della generale ricostruzione cittadina effettuata da casa De Angelis alla fine del seicento, con il contributo del geniale reverendo Francesco Capodieci, architetto e matematico, che fu il vero artefice della trasformazione di Mesagne da città-fortezza in città barocca.
Il museo di Arte Sacra “Cavaliere-Argentiero”
Il museo di Arte Sacra “Cavaliere-Argentiero” di sera
Il portale, tra due lesene lavorate a bugnato che sostengono capitelli corinzi, forma un arco a sesto tondo circondato da motivi floreali. Il portone in legno è sormontato da lunetta decorativa.
La trabeazione fa da base per la balconata con colonnine in pietra.
Ingresso
Lo Scalone
Chiesa Madre
L’attuale costruzione della Chiesa Matrice, soggetta nel tempo a varie modifiche, è stata progettata nel 1650 dal sacerdote mesagnese Francesco Capodieci, dal frate Francesco da Copertino e dal chierico mesagnese Antonio Leugio. E’ una chiesa a croce latina, ad unica navata. Il prospetto è composto da tre ordini architettonici, sormontati da un timpano: il primo è costituito da sei pilastri di ordine ionico, nei cui interspazi vi sono quattro nicchie con quattro apostoli. Il cinquecentesco portale maggiore è sostenuto da quattro colonnette doriche, con capitello corinzio. Il secondo ordine è di tipo corinzio e il terzo è di tipo composito e contiene le statue di altri quattro apostoli. Al centro vi è un bassorilievo rappresentante la Madonna del Carmine. Nel timpano vi è lo stemma di Mesagne in bassorilievo e sopra i quattro angeli. La chiesa era stata costruita sulla cappella bizantina di S. Nicola Vetere, nel X secolo. Attorno al 1450, come afferma lo storico Mannarino, fu ristrutturata e dedicata a “Tutti i Santi”. Intorno al 1580 fu nuovamente ristrutturata e probabilmente riorientata ad est, a spese dell’Università, per impulso del vescovo mesagnese Lucantonio Resta. Il 31 gennaio 1649 la chiesa crollò e fu poi ricostruita tra il 1650 e il 1660. Le raffigurazioni dei dodici apostoli furono realizzate nella cerchia dei ‘mastri’ salentini che i documenti indicano in Salvatore Miccoli, Gianmaria Biasi e Domenico Capozza. Tra le colonne sono racchiuse le cappelle poco profonde, dotate di altari in pietra. La quadreria comprende: Gesù caccia i mercanti dal tempio, Pentecoste, Ultima Cena e Martirio di S. Pietro Apostolo XVIII sec. di Domenico Pinca; Trinità con Maria Vergine, S. Michele Arcangelo ed anime purganti, Madonna con bambino e Santi, Assunzione di Maria di Saverio Lillo; Visitazione, S. Nicola di Mira e S. Eligio (o Agostino), S. Oronzo vescovo e martire di ignoto pittore meridionale del XVIII sec.; Madonna del Carmine di Giuseppe Bonito del XVIII sec.; Adorazione dei pastori di Gian Pietro Zullo, Andrea Cunavi e Domenico Pinca. La statuaria: Cristo Risorto di ignoto cartapestaio salentino del XVIII sec.; S. Cuore di Maria di ignoto cartapestaio salentino fine sec. XIX – inizio XX; fonte battesimale di Nicola Carletti, Pasquale e Pietro A. Sebastiani; S. Cuore di Gesù di Francesco Giancane; Madonna della Luce di Antonio Maccagnani; Cristo Crocifisso di ignoto intagliatore italiano della seconda metà del secolo XVII. Altre opere sacre presenti di notevole spessore sono: la campana, mastro fusore G. Maria Cupito da Messina (1611); coppia di bussole laterali, orchestra in legno di noce, porta del succorpo e pulpito in legno di noce intagliato, policromo 1774 di Nicola Carletti, Innocenzo Rizzo, Giuseppe e Rocco Leopardi; coppia di acquasantiere pensili, balaustrata, altare maggiore di marmi policromi, scolpiti, 1770 di Nicola Carletti, Pasquale e Pietro Antonio Sebastiani; Angelo Reggifiaccola di Giuseppe Pagano; decorazione a stucco sull’arco trionfale con firma autografa di Pasquale Faiella capo degli stuccatori del ‘700.
Katiuscia Di Rocco
Statua lignea e croce pettorale con pietre verdi di San Benedetto. Manifattura napoletana.
Statua: secolo XVIII. Croce pettorale: datazione sconosciuta
Stanza numero 1 – Monastero di San Pietro
La prima sala intitolata Monastero di San Pietro accoglie il visitatore ponendo in mostra argenti, tra i quali il crocifisso con base in argento commissionato dalla badessa Giustina De Benedictis del 1683, paramenti di proprietà della comunità benedettina e lo splendido ovale raffigurante la Madonna del Carmine.
Monastero di San Pietro
Attualmente non si è in possesso dell’atto di fondazione del Monastero di San Pietro in Ostuni, pertanto la data approssimativa è stata ricavata dalla consultazione e dalla comparazione di fonti storiche diverse. Il chiostro viene menzionato per la prima volta in un manoscritto dell’Archivio della Curia Vescovile di Ostuni datato 15 marzo 1519, quando per la costruzione del convento venne abbattuta la casa di un certo Mathei de Claricia, costruzione sicuramente terminata nel 1533, anno in cui il vescovo Pietro Bovio (1530-1557) ne dava il possesso a suor Ippolita d’Yppolito di Taranto, prima badessa. In quello stesso anno, inoltre, la regina di Polonia Isabella Bona Sforza, Signora primaria di Ostuni, donava al monastero “alcune case e terre di pertinenza del Castello esistente nella cima della città”, in virtù dell’atto rogato dal notaio Matteo Bagnardi il 29 aprile 1533. Per far fronte al rapido aumento del numero delle monache, ben presto si rese necessario un ampliamento dell’ormai insufficiente e precario edificio monastico e dell’annessa chiesa, mediante l’acquisto nel 1658 del palazzo degli eredi di Antonio Lercario, nobile ostunese. Nel 1723 con l’acquisto del palazzo di Francesco Paolo Sandalari si cercò di migliorarne ulteriormente i servizi e nel 1725 si contavano infatti ben 32 monache e 6 converse.
Dalla Platea, ovvero un registro di beni conservato nello stesso chiostro, il monastero risultava essere composto da un primo piano con stanze per riporre legna, olio, formaggio e salame; un secondo piano con cucina, il refettorio, un camerone dove lavorare la pasta, tre parlatori, uno per il ceto basso, uno per i nobili e un altro destinato alla visita dei superiori e un forno ad uso delle monache con calderoni per cuocere il vino mosto. Per mezzo di una rampa di scale si accedeva al terzo piano dove abitavano le religiose coriste, laiche e serve in camere con letti detti arcuovi e dove «faticano le coriste e per istruire le Educande ed a fior de quali vi è un belvedere di una loggiata con teste di fiori ed altri arboscelli, vi è il coro da officiare; vi sono dei magazzini ed altri comodi». Il quarto piano era invece composto di più camere per le educande e la maestra delle stesse. Nella relazione Ad Sacra Limina del 1750 del vescovo Francesco Antonio Scoppa (1747-1782) affermava che il monastero poteva accogliere fino ad un massimo di 33 suore provenienti da famiglie nobili. Successivamente l’esistenza della comunità benedettina ostunese venne messa seriamente in pericolo durante il decennio francese con i decreti di soppressione degli ordini religiosi di Giuseppe Napoleone del 13 febbraio 1807 e di Gioacchino Murat (7 agosto 1809). Intanto, in seguito all’acquisto avvenuto il 16 gennaio 1848 di un quarto del confinante palazzo Massari per soddisfare gli aumentati bisogni della comunità che all’epoca contava 20 monache, 7 educande e 11 serve, le benedettine, ottenuta l’approvazione del vescovo Diego Planeta (1841-1848), con conclusione capitolare del 22 gennaio 1850 decidevano di ricostruire il monastero in un corpo unico, quale si può ammirare ancora oggi in tutta la sua austerità e imponenza nel centro storico di Ostuni.
Katiuscia Di Rocco
S.PIETRO APOSTOLO. Scultura lignea policroma su trespolo, con abiti in tessuto. A San Pietro Apostolo è dedicato il Monastero Benedettino di Ostuni. Dopo i Santi Benedetto e Scolastica, l’Apostolo è invocato dalle monache come loro particolare protettore. La statua simboleggia S. Pietro rattristato, sicuramente si fa riferimento al momento in cui egli si rende conto di aver rinnegato Gesù. Attribuibile, dunque, a questa immagine l’appellativo di “Penitente”. Il Santo reca con sé le chiavi, simbolo del Ministero Petrino, affidatogli da Gesù, e in forma del tutto eccezionale il Pastorale, segno dell’Episcopato, che indica la guida e la premura nel pascere il gregge di Dio. Inizio secolo XIX. Cm 75 x 24. – CARTE GLORIA. Carte Gloria in argento, commissionate dalla Badessa Germana Nisi. Le carte gloria venivano usate prima del Concilio Vaticano II ed incorniciavano le parti fisse della Messa, tra le quali il Prologo di San Giovanni. Manifattura napoletana. Secolo XIX. Cm 25 x 20; Cm 45 x 45.
Pianeta. Tessuto di colore rosso ricamato in oro. La pianeta è l’abito distintivo del sacerdote.
Indossata sopra gli altri paramenti è simbolo della carità che copre una moltitudine di peccati. Secolo XVIII, cm 110×74
Crocifisso con base in argento commissionato da Donna Giustina De Benedictis, Abbadessa. Anno 1683, cm 135x45x20
Messale romano, ex decreto Sacri Concilii Tridentini, con copertina in velluto ed effige in argento del papa Gregorio Magno;
sul retro immagine di San Benedetto in argento. Secolo XVIII
Candeliere d’altare, facente parte di un gruppo di sei candelieri in metallo pregiato. Datazione sconosciuta cm. 50 (alt.)
Madonna del Carmelo. Domenico Pinca – Mesagne 1746-1813. Olio su tela cm 360×230
Sant’Oronzo. Legno policromo, dorato argentato. Ignoto intagliatore pugliese. Secolo XVIII – cm 110x51x29
Crocifisso ligneo di ignoto scultore. La croce è di recente fattura, andata a sostituire quella originale andata dispersa. Secolo XVIII, cm 187×90
Stanza numero 2 – Gli argenti
Ci si immerge quindi nella meraviglia degli Argenti nella seconda sala, dove è esposta solo una parte di quanto è registrato nei secoli dai documenti archivistici dell’arte argentaria del Capitolo di Mesagne e del Monastero delle Benedettine di Ostuni. Questa parte è però di tale interesse e qualità da documentare ampiamente il prestigio religioso e politico dei due Enti. La produzione argentaria fa capo agli artigiani napoletani. Croci argentate, tabernacoli, calici, navicelle, cucchiaini, lampade, coppe, secchielli, aspersori, incensieri, navette, turiboli, ampollieri, anelli, vasetti, portella di tabernacoli, guantieri, vassoi, vasetti in argento fuso, sbalzato, cesellato o parzialmente dorato.
Gli argenti
Quanto resta dell’arte argentaria del Capitolo di Mesagne e del Monastero delle Benedettine di Ostuni è solo una parte di quanto registrato nei secoli dai documenti archivistici come visite pastorali ed inventari. Questa parte è però di tale interesse e qualità da documentare ampiamente il prestigio religioso e politico dei due Enti. A impoverire l’originale corredo hanno contribuito i cambiamenti di gusto, il terremoto del 20 febbraio 1743 e le razzie avvenute durante il decennio francese, ben rappresentate dal pittore Ludovico Delli Guanti che in Francavilla Fontana eseguì una coppia di sarcastici schizzi rappresentandovi “due generali francesi i quali vomitavano calici, pissidi e patene” (Michele Paone). La produzione argentaria fa capo agli artigiani napoletani, poiché in base alla prammatica del Conte S. Estevan del 1689 la lavorazione del prezioso metallo doveva avvenire a Napoli per garantire un maggiore controllo. La certezza della provenienza viene dai bolli corporativi e consolari ancora leggibili integralmente o in parte, e dai bolli di garanzia. Anche se in periferia, quindi Mesagne poteva, all’interno delle possibilità finanziarie, far capo all’arte argentaria napoletana. Croci argentate, tabernacoli, calici, navicelle, cucchiaini, lampade, coppe, secchielli, aspersori, incensieri, navette, turiboli, ampollieri, anelli, vasetti, portella di tabernacoli, guantieri, vassoi, vasetti. Tra gli artigiani riconosciuti c’è Giuseppe Palmentiero, autore di un calice cesellato e parzialmente dorato del 1737. Dopo la soppressione dei beni ecclesiastici, alcuni pezzi di maggior rilievo provenienti dal Monastero delle Clarisse di Santa Maria della Luce confluirono nella Chiesa Matrice di Mesagne: un ostensorio, forse di Giacinto Bonacquisto, una pisside di argento cesellato di Carlo Frezza di pregiata fattura con la rappresentazione nel sottocoppa di cartigli con il simbolo liturgico dell’uva, un campanello del 1740, recante l’iscrizione “Suor Maria Benedetta Melizza” e con l’incisione dell’immagine di santa Chiara e San Francesco, e un vassoietto con l’incisione di Santa Maria Maddalena. In mostra sono anche un ostensorio del XVIII secolo di argento fuso, sbalzato, cesellato, inciso e parzialmente dorato con pietre incastonate. Realizzato a Napoli, non è certo che l’autore sia Giovan Battista d’Aula o Giacinto Buonacquisto. E’ espressione comunque della ricerca stilistica ed estetica settecentesca definita in una ricca policromia della raggiera e nei forti contrasti chiaroscurali dei peducci e dei cartocci. La misura impostazione della figura angelica garantisce severità all’opera. Ancora in mostra è un crocifisso con base in argento commissionato dalla badessa Giustina De Benedictis del 1683, un pregiato calice di argento fuso, sbalzato, cesellato e parzialmente dorato movimentato da tre testine angeliche con ali realizzate tra motivi floreali e una croce astile di argentiere napoletano del XIX secolo in argento fuso, sbalzato e inciso dove tra il cartiglio INRI ed il teschio di Adamo è opposto il Cristo Patiens. Le soluzioni decorative di stampo neoclassico consentono di confermare la datazione, ma non è invece accertabile l’identità del monogrammista SG, l’argentiere autore dell’opera, il cui bollo è contraddistinto in basso da un piccolo giglio.
Katiuscia Di Rocco
Palma. Argento, parzialmente dorato. Ignoto argentiere. Secolo XVIII, cm 58 (lung.)
Stanze numero 3 e 4 – Capitolo Collegiale
Le stanze 3 e 4 sono dedicate al Capitolo Collegiale e i suoi preziosi paramenti sacri. Si tratta di una raccolta eterogenea che copre un arco cronologico che va dal XVI al XIX secolo di diverso valore e interesse. Ogni pezzo è un raccolto sulla storia, la spiritualità, le regole, i divieti, le tradizioni, il sentimento della comunità. Tonacelle, piviali, conopei da tabernacoli, pianete, veli da calice, stole, manipoli, borse, di vari tessuti con vari ordini, trame e disegni. In particolare il Parato di oro del Capitolo è costituito da una pianeta, due tonacelle, due stole, tre manipoli, velo calice, borsa, conopeo per tabernacolo, paliotto, piviale e velo omerale ed è in Gros de Tours di seta avorio ricamato in oro. E’ di manifattura napoletana della seconda metà del XVIII secolo. Motivo fondamentale è il pellicano, segno del Cristo che nell’Eucaristia si offre per la salvezza e il dono della vita eterna all’uomo.
Stanza n. 3
Stanza n. 4
Paramenti sacri
L’insieme dei paramenti sacri del Capitolo di Mesagne e del Monastero delle Benedettine di Ostuni è una raccolta eterogenea che copre un arco cronologico che va dal XVI al XIX secolo di diverso valore e interesse. Ogni pezzo è un raccolto sulla storia, la spiritualità, le regole, i divieti, le tradizioni, il sentimento della comunità. Tonacelle, piviali, conopei da tabernacoli, pianete, veli da calice, stole, manipoli, borse, di vari tessuti: damasco, taffetas di seta, damasco broccato à liage repris, gros de Tours moiré, seta avorio ricamato, gros de Tours liseré broccato, taffetas moiré broccato, pékin liseré ricamato. Tutti i paramenti sono di fattura meridionale con vari ordini e trame e discreto è il loro stato di conservazione. I disegni dei parati sono con maglie romboidali aperte con ai lati elementi fitomorfi o ancora con motivi fantastici e asimmetrici che si susseguono con continuità, e, come suggerisce Maria Pia Vescina, alcuni presentano forme di cornucopie con elementi florealvegetali che ricordano funghi, frutti esotici e grandi narcisi. Altri parati hanno una struttura asimmetrica di grandi dimensioni con ricca vegetazione con piante riconoscibili strutturate insieme a forme fantastiche. Infine per i parati dell’Ottocento il disegno rilevante è carico di simboli della passione e morte di Cristo, della fede, della Trinità, della promessa del Paradiso, di frutti e di uccelli.
Il Parato di oro del Capitolo è costituito da una pianeta, due tonacelle, due stole, tre manipoli, velo calice, borsa, conopeo per tabernacolo, paliotto, piviale e velo omerale ed è in Gros de Tours di seta avorio ricamato in oro. E’ di manifattura napoletana della seconda metà del XVIII secolo. L’esecuzione è a punto steso in oro e argento filati, ricci e lamellari fissati con varietà di punti di fermatura con applicazione di canutiglia e paillettes. Il disegno è stato concepito con caratteristiche diversificate per ciascun elemento dell’arredo liturgico. Motivo fondamentale è il pellicano, segno del Cristo che nell’Eucaristia si offre per la salvezza e il dono della vita eterna all’uomo. Le fodere sono in rasatello di cotone rosso per pianeta e tonacelle e colore giallo per piviale. Nella pianeta, in particolare, melagrane, gigliacee e tulipani, cornici architettoniche, lambrecchini e canestri ricolmi di grappoli d’uva e spighe sono organizzati intorno al pellicano iconograficamente rappresentato con i suoi pulcini. Sono ripresi gli stessi motivi per le due tonacelle. Nel piviale, che è bordato di un doppio smerlo a festoni includente un reticolo, le falde anteriori sono ornate da un disegno che si struttura in andamento curvilineo assemblando motivi cristiani ed eucaristici che restano alquanto slegati fra loro: foglie di acanto rastremate, una cornice mistilinea a forma di lira che accoglie un piccolo tralcio di vite, steli di rose e melagrane che muovono da specchiature. Il resto del manto è disseminato di stelle regolarmente spaziate.
Il velo omerale è bordato da tralci di vite continui, del tutto simili a quelli che fanno corona al motivo centrale del sole raggiato contenente il monogramma eucaristico (IHS). Steli fioriti scandiscono il velo nella sua lunghezza, accantonati da minuscole corolle.
Stanza numero 5 – I legni dipinti
Lasciati i paramenti si entra nella stanza numero 5 dei Legni dipinti che in generale hanno uno sfondo solido di colore pallido con un ornamento naturalistico monocromatico o con una viva policromia. I tronetti per l’esposizione eucaristica sono laccati e dorati, come le palme d’altare, realizzati con evidente gusto scenografico con decorazioni vegetali. La panca qui esposta è di un ignoto artigiano meridionale del XVIII secolo e fa parte dell’arredo ecclesiastico della collegiata mesagnese probabilmente usata per far sedere i diaconi e l’officiante durante le celebrazioni solenni.
Legni dipinti
Quando si parla di mobili dipinti italiani del Settecento, si pensa principalmente ad una produzione veneziana o genovese. In generale hanno uno sfondo solido di colore pallido (avorio, blue, verde, giallo) con un ornamento naturalistico monocromatico o con una viva policromia. Fiori in mazzi o isolati sono decorati con trafori, fogliami che vengono sorvolati da uccelli ed insetti. I mobili nel Settecento sono scuri e pesanti, le sedie scomodissime, le poltrone inesistenti e, nell’insieme, l’occhio viene colpito da una certa severità e freddezza. In parte si tratta di legni pregiati, e poi intaglio, scultura, argentatura, doratura, intarsio con materiali preziosi, pittura, policromia, laccatura. La lacca viene distribuita generosamente a fogli interi sui mobili come impiallacciatura, oppure vernice protettiva e preziosa sopra il legno ingessato e dipinto. I mobili in genere sono mossi a cominciare dai piedi che possono essere sottili, rastremati, appuntiti, fatti a ricciolo, a zoccolo, ad artiglio, proseguendo alle gambe che sono sempre sinuose, a sciabola, e sono libere, senza traverse o crociere, fino al corpo vero e proprio che ha linee rientranti e sporgenti. I tronetti per l’esposizione eucaristica sono laccati e dorati, come le palme d’altare, realizzati con evidente gusto scenografico con decorazioni vegetali che arricchiscono di valore simbolico la cornice. La panca qui esposta è di un ignoto artigiano meridionale del XVIII secolo e fa parte dell’arredo ecclesiastico della collegiata mesagnese. Di legno intagliato è tripartita e probabilmente usata per far sedere i diaconi e l’officiante durante le celebrazioni solenni. Lo schienale è arricchito da un fregio intagliato a motivi architettonici e floreali. Nella parte inferiore del fregio vi è una parte liscia, laccata, color verde che ha la funzione di cornice per l’imbottitura dello schienale. La parte frontale è finemente intagliata e le gambe sono arcuate. La tappezzeria originale è stata probabilmente sostituita nel Novecento. In precedenza vi era forse un gros de Tours moiré di seta rosa salmone, simile a quello presente. Il mobile è quasi del tutto trattato con la tecnica dell’argentatura a mecca.
Katiuscia Di Rocco
Stanza numero 6 – Le Benedettine
Quindi la stanza 6 detta delle Benedettine è dedicata ai paliotti e paramenti sacri del monastero, preziosi ricami liturgici che raffigurano San Benedetto, San Pietro e l’Immacolata Concezione.
La spiritualità benedettina
La spiritualità benedettina del Monastero di San Pietro Apostolo in Ostuni è stata sempre vissuta con una forte accentuazione comunitaria, realizzata in comunione di ideali di vita e di beni all’interno della clausura, quale piccola porzione di Chiesa della nostra Arcidiocesi.
In un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento la nostra giornata monastica è articolata, da oltre cinque secoli, in tre momenti complementari e convergenti: l’Opus Dei, la Lectio Divina, il lavoro.
La Comunità monastica ha coscienza e avverte la responsabilità di essere in terra il riflesso della liturgia del cielo, eco della Chiesa celeste, sposa senza macchia e senza ruga, intorno al trono del suo Sposo, l’Agnello immolato e glorificato; ciascuna monaca, chiamata a vivere e professare i consigli evangelici, realizza in se stessa, in seno alla comunità, la figura della sposa, della vergine che attende con la lampada accesa l’arrivo dello sposo. E’ la spiritualità dell’avvento che regola la vita, un tempo che scorre nell’attesa di incontrare l’amore misericordioso e che ci impegna insieme nel comune sforzo di vigilanza e di premura. La vocazione di consacrarsi a Dio all’interno di un Monastero di clausura non significa, come molti purtroppo ancora pensano, sopprimere i doni ricevuti dal Signore, né tantomeno fuggire le responsabilità e i problemi del mondo; basti pensare che, nel corso dei secoli e fino ad oggi, le monache si sono affermate nell’arte della musica, della cultura, nel ricamo in oro e nei tradizionali dolci monastici, fedeli al monito della Regola “…allora sono veri monaci quando vivono del lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli apostoli” (RB 48). L’ozio, infatti, è il nemico dell’anima; per questo i monaci devono, in alcune ore determinate, “occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore, anch’esse ben fissate, nello studio delle cose divine”. Il monastero può definirsi sempre un cantiere aperto; di generazione in generazione sono state tramandate arte e cultura. Le monache, ben a ragione, possono definirsi delle vere e proprie maestre di ricamo in oro, di pittura, di creazioni di oggetti confezionati con perle ecc… ma, al contempo, hanno saputo unire tra preghiera e lavoro la grande virtù della carità, prodigandosi anche nell’accoglienza dei poveri e di quanti bussano alla porta del monastero per essere ascoltati o per trovare un luogo ove riposare nel corpo e nello spirito. Ancora oggi cerchiamo di tenere viva questa tradizione realizzando attività artigianali quali la preparazione e il ricamo di set liturgici, tovaglie d’altare, tovagliette varie, corone, oltre la produzione di dolci e liquori. Il lavoro dunque prolunga l’opera della creazione, sviluppa le facoltà, aiuta il progresso umano, svolge un servizio sociale e permette di imitare Cristo lavoratore. E così, in questa sapiente alternanza tra la preghiera e il lavoro, le monache vivono la loro vita sotto lo sguardo di Dio, restando fedeli all’antico e sempre nuovo motto: “Ut in omnibus glorificetur Deus”.
Madre Maria Pia Melchiorre
Paliotti
Nella tradizione dell’arredo ecclesiastico il palio o paliotto (antependium) ha una notevole importanza in quanto esposto ai fedeli proprio in una posizione frontale dalla sacra mensa estremamente ben visibile, veicolando quindi in modo privilegiato ed immediato il messaggio di fede. Il termine paliotto è di derivazione tardomedievale dal latino pallium, col significato di drappo e quindi di rivestimento in tessuto dell’altare che serve a coprire il fronte, eventualmente i lati e talora il retro dell’altare; per estensione, anche la decorazione fissa del fronte dell’altare. Esso può essere in tessuto, dipinto o ricamato, semmai con frange, in legno, metallo, pietra, avorio o cuoio. Se di stoffa, il paliotto cambia colore secondo la liturgia. I paliotti in esposizione al Museo “Cavaliere-Argentieri” sono tre. Il primo di ignota artista, ricamato con fili d’oro e di seta, rappresenta San Benedetto inginocchiato in preghiera con lo sguardo rivolto verso il cielo. Intorno la casa romita, l’azzurro del lago e diversi animali tra cui conigli, uccelli, cani e cervi in posizione naturalissima. In alto un corvo recante nel becco un pezzo di pane in memoria della sua vita ascetica, infatti la leggenda racconta che mentre egli stava in una grotta per lungo tempo, a Subiaco, un corvo tutti i giorni arrivava e gli portava un pezzo di pane. Tutta l’immagine riprende il salmo biblico: “Benedicite. Le cose tutte del creato e gli animali tutti lodano il Signore”. Il secondo rappresenta l’Immacolata Concezione ed è stato realizzato dalla monaca benedettina ostunese suor Concetta Sozzi. La Madonna ha gli occhi verso Dio, preludio della sua Assunzione in corpo e in anima in cielo, dogma proclamato da Pio XII il primo novembre 1950 a Piazza San Pietro. Il terzo raffigura San Pietro Apostolo, patrono della chiesa monastica di Ostuni ed è anch’esso opera di suor Concetta Sozzi. Il tema è preso dal Vangelo di Matteo: Pietro, Kefa, Roccia, nome che Gesù diede a Pietro per simboleggiare la nascita della Chiesa.
Katiuscia Di Rocco
Stanza numero 7 – Civitas Mariae
la stanza 7 alla Civitas Mariae, una devozione legata alla storia, una quotidianità e un’alleanza fedele e vigorosa che sono a fondamento del pubblico riconoscimento di Mesagne come città mariana. La cittadina vive e celebra il 20 febbraio di ogni anno come giorno di grande festa in onore della sua Protettrice, la Madonna del Carmine come ringraziamento a Dio per il dono della Vergine Maria, Madre e gloriosa Protettrice nello storico luttuoso evento del terremoto del 20 febbraio 1743.
Mesagne “Civitas Mariae”
Dal 2003 Mesagne è stata proclamata “Civitas Mariae”. La proclamazione ha conferito ufficialità ad un sentimento sedimentatosi nei secoli che ha reso Mesagne una città mariana ben prima dell’avvento del nuovo millennio. Non un vuoto sentimentalismo devozionistico, ma una storia, una quotidianità e un’alleanza fedele e vigorosa che sono a fondamento del pubblico riconoscimento di Mesagne come “Civitas Marìae”. La cittadina vive e celebra il 20 febbraio di ogni anno come giorno di grande festa in onore della sua Protettrice, la Madonna del Carmine. Festa di memoria e di ringraziamento a Dio per il dono della Vergine Maria, Madre e gloriosa Protettrice nello storico luttuoso evento del terremoto del 20 febbraio 1743. A proposito di quel sisma che sconquassò il Regno di Napoli, le cronache dicono che fu la Vergine a salvare Mesagne da danni maggiori ed i mesagnesi benché il tempo fosse inclemente si recarono ugualmente nel Santuario del Carmine per ringraziarla, prelevarla e condurla in processione in Chiesa Madre al fine di tributarle i sentimenti di gratitudine per lo scampato pericolo. Il 10 febbraio di ogni anno si svolge in Mesagne la processione e il simbolico rito della consegna delle chiavi alla Vergine nella Chiesa dell’Immacolata dopodiché ci si prepara con una solenne novena in Chiesa Matrice.
Stanza numero 8 – Monastero di Santa Maria della Luce di Mesagne
Quindi il visitatore procede alla stanza 8 con la riscoperta di una realtà mesagnese della quale purtroppo restano poche tracce: il Monastero di Santa Maria della Luce di Mesagne, oggi distrutto. Fu fondato nel 1581 dai coniugi Alfonso Caputo ed Aquila Giovannone e poi accresciuto dalla donazione di altri benefattori. Il 13 agosto del 1582 alle ore tre di notte la costruzione del monastero fu ultimata e fu permesso l’ingresso del primo nucleo di ventitré religiose, guidate dalla badessa Angelica Azzolini, di nobile famiglia. Nel corso degli anni il monastero di Santa Maria della Luce fu ampliato e modificato. Con le leggi del 1866 sulla soppressione delle corporazioni religiose il Monastero di Santa Maria della Luce fu incamerato nel “Fondo per il Culto” e le monache nel 1906 furono definitivamente trasferite presso le benedettine di Ostuni.
Monastero di Santa Maria della Luce
Il Monastero di Santa Maria della Luce di Mesagne, oggi distrutto, era ubicato nell’attuale piazza dei Commestibili, tra le vie Albricci e Lucantonio Resta. Fu fondato nel 1581 dai coniugi Alfonso Caputo ed Aquila Giovannone, per effetto di quella gran pietà, di cui erano dotati. Il patrimonio del chiostro fu poi accresciuto dalla donazione di Porzia Resta, anche essa di Mesagne, e di altri benefattori. Per educare le giovani fanciulle vennero trasferite alcune monache cappuccine della vicina città di Brindisi. Il 13 agosto del 1582 alle ore tre di notte la costruzione del monastero fu ultimata e fu permesso l’ingresso del primo nucleo di ventitré religiose, guidate dalla badessa Angelica Azzolini, di nobile famiglia. Nelle visite pastorali del XVII e XVIII secolo le religiose erano sempre descritte come tutte osservanti della disciplina monastica. La gestione del patrimonio della famiglia religiosa doveva però aver percorso alterne vicende se nel 1754 il numero prefisso delle corali e delle converse era stato ridotto. Nell’Apprezzo del Feudo di Mesagne eseguito dal regio tavolario Pietro Vinaccia nel 1731 veniva riportato che la dote spirituale delle religiose era pari a 300 ducati per le numerarie e, nonostante il monastero fosse di giurisdizione arcivescovile, a discrezione della badessa quella delle soprannumerarie. Le entrate del chiostro erano rappresentate da censi, masserie, grano e case, voci tipiche di un sistema economico preindustriale. Nel corso degli anni il monastero di Santa Maria della Luce intraprese vari lavori di ampliamento e modifica e 1754 si presentava così: “bislungo, l’altezza del suo recinto è di palmi quarantacinque (…) la sua parte superiore è composta di un dormitorio e diviso in stanze e cameroni e celle e la parte inferiore tiene un chiostro, un refettorio e una cucina e dispenze, una casa col forno, un lavatojo, due stanze per la legna un magazzino per rimettere grano, una stanza per rimettere la calce, ed un’altra cucina, che se ne serve il monistero per mettere il vitto cotto, come pure tiene nella parte superiore un’altra stanza nella quale si ripone il formaggio per la basta del predetto Monistero. Non vi sta luogo separato per le novizie, né anche per le educande, ma quando tra le religiose vi sono di queste si trattengono con le loro maestre. (…) Tra detto Monistero vi sono pozzi di acqua sorgiva due cisterne, ed una conserva di acqua dolce, che vi si introduce di fuora. Tiene un solo parlatorio con una grata, una cratella con due ordini di ferro per ciascheduna, ed una ruota”. Le religiose affrontarono non poche difficoltà economiche per portare a termine i lavori di restauro dell’edificio. Benefattori del monastero furono anche i due abati Sasso, che dopo aver versato la dote spirituale di 400 ducati per la loro nipote Angelantonia, si offrirono di costruire una cella. decsrivendo con grande precisione le caratteristiche che avrebbe dovuto avere la stanza, il materiale da utilizzarsi e il costo dell’opera. La costruzione della cella si inseriva in una più ampia opera di restauro che restò a completo carico delle monache che affidarono l’impresa a maestranze brindisine, quali Leonardo Turi e poi Mauro Capozza. Il 18 novembre 1793 le suore decisero di edificare un nuovo monastero su progetto dell’ingegnere Fedele Morgese e successivamente il 20 aprile del 1859 le monache stipularono un contratto di costruzione con il maestro mesagnese Tommaso Perrucci secondo il progetto dell’architetto Francesco Carluccio. Con la legge n. 3036, del 7 luglio 1866 si estendeva a tutto il Regno d’Italia la soppressione delle corporazioni religiose, riformando l’Amministrazione del patrimonio ecclesiastico e istituendo un nuovo organismo detto “Fondo per il Culto” che avrebbe operato fino al Concordato del 1929. Il Monastero di Santa Maria della Luce venne perciò incamerato nelle proprietà del suddetto e fu adibito, tra l’altro, a caserma militare. Le monache rimasero ancora per una quarantina di anni in piccoli ambienti a loro riservati, finché nel 1906 lasciarono definitivamente il monastero, trasferendosi presso le benedettine di Ostuni.
Katiuscia Di Rocco
Stanza numero 9 – Don Saverio Martucci
Il Museo si chiude poi con la sala numero 9 dedicata a Don Saverio Martucci (1923-2009) sacerdote mesagnese di straordinaria umanità impegnato soprattutto nella formazione dei giovani e nel ristoro dei più anziani.
Stanza numero 10 – Archivio Capitolare
Nella stanza numero 10 è conservato l’Archivio Capitolare i cui documenti raccontano la storia della città di Mesagne dalla dominazione spagnola alla caduta del Regno di Napoli e testimoniano come circa dalla fine del XVII secolo ai principi del XVIII, il Capitolo di Mesagne abbia difeso più volte e a sue spese la comunità. Ciò che del Capitolo è qui in mostra sono i due catasti antichi e cioè la mappatura del tessuto urbano, l’aspetto culturale, l’economia cittadina e quella rurale, lo status sociale e l’organizzazione familiare della cittadina di Mesagne tra il XVI e il XVII secolo.
Archivio capitolare
La storia del Capitolo Collegiale di Mesagne è la storia della città dalla dominazione spagnola alla caduta del Regno di Napoli. I documenti conservati nell’Archivio testimoniano come circa dalla fine del XVII secolo ai principi del XVIII, il Capitolo di Mesagne abbia difeso più volte e a sue spese la comunità mesagnese: prima contro gli eredi dei Cardinali Albricci e Farnese che nel 1669 avevano prestato all’Università 50.000 ducati, poi facendosi obbligo di procurarsi denaro in prestito dalle banche napoletane per pagare il debito che l’Università aveva verso la casa professa, quindi comprando nel 1682 il grano per il popolo ed infine liberandola dall’obbligo del sale che veniva imposto in quantità superiore al doppio di quella necessaria per gli abitanti. La storia delle gabelle in questo archivio è documentata in forma completa e rimanda il pensiero alla rivolta capeggiata da Tommaso Aniello e segnata in Mesagne con fatti di sangue commessi anche nella chiesa madre che il 18 marzo 1648 fu ribenedetta dopo dieci giorni dacché era stata violata. La rivolta fu sedata nel sangue e il 17 aprile dello stesso anno dalla Curia Vescovile di Brindisi, retta da monsignor Dionisio Odriscol, veniva l’ordine perché qui si facesse una processione e una festa solenne in ringraziamento per la pace tornata nel Regno. Ancora i documenti raccontano del grande torto subito da Mesagne quando dal governo vicereale le venne tolto un particolare privilegio nel tratto della costa Adriatica: fin dal XIV secolo la comunità aveva avuto facoltà di esportare i prodotti del suo agro oltre mare, attraverso due proprie rade che molto danneggiavano l’economia marittima di Brindisi. Infine, ma non ultimo, è conservato nell’archivio il foglio a stampa diramato il 27 novembre 1860 da Mesagne, firmato da Paolo Grande, sacerdote di capitolo, che enunciava il programma liberale dell’Associazione Italiana del clero meridionale d’Italia, documento che assieme rende più chiara la funzione del clero meridionale durante il fenomeno del Risorgimento Italiano.
Ciò che del Capitolo è qui in mostra sono i due catasti antichi. Con il termine “catasto” si intende quell’operazione che gli Stati preunitari attuarono per conoscere la consistenza dei beni immobili dei cittadini al fine di ripartire equamente su di essi il peso fiscale. Il catasto è quindi uno strumento fiscale con una funzione amministrativa e consultato per fini economici, ma è anche fonte documentaria che parla dei beni e delle “fatiche” degli uomini raccontandone la storia. Le pagine descrivono il tessuto urbano, l’aspetto culturale, l’economia cittadina e quella rurale, lo status sociale e l’organizzazione familiare, consentendo di ricostruire le condizioni di vita nella cittadina di Mesagne tra il XVI e il XVII secolo. I due catasti antichi conservati nell’Archivio Capitolare di Mesagne, del 1588 e del 1627, forniscono informazioni preziosissime ai fini degli studi demografici ed economici in un’epoca in cui lo Stato civile non è ancora istituito, e consentono di conoscere le diverse strutture familiari, spesso formate da più nuclei.
Katiuscia Di Rocco
Si ringrazia l’amico Mario Carlucci per la collaborazione
Bibliografia e sitigrafia:
“Legenda: allo scopo di non tediare il lettore con la ripetizione delle fonti citate, è stato attribuito un numerino per ogni opera consultata, che si ritroverà al termine della citazione e che consentirà l’esatta attribuzione bibliografica/sitigrafica.”
(1) Museo di arte sacra “Cavaliere – Argentiero – Mesagne (Br), materiale informativo
(2) http://terradeimessapi.it/piazza-orsini-del-balzo-e-palazzo-cavaliere/
(3) Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” – Brindisi