Corriere del Giorno – Domenica 7 ottobre 1962
L’istruttore del telegrafo, racconto di Alfio Tarullo
Con la fine dell’anno scolastico – avevo terminato le elementari e superato l’esame di ammissione alla scuola media – fui privato dell’unico diversivo che mi teneva impegnato in quei noiosi giorni del 1942: i compiti di scuola. Ora, nella mia assurda solitudine di ragazzo privo di amici e senza desiderio di averne, non riuscivo a trovare svago se non correndo a perdifiato per strada, da porta Bari a porta Matera , inseguendo qualche bicicletta, come il cane il padrone che lo precede, e compiacendomi dell’ebbrezza datami da tale innocua velocità che mi lasciava col respiro affannoso ma felice. La noia che mi opprimeva e mi ammalinconiva, come una strana, indistinta malattia, scompariva, per lasciar posto all’ansia emotiva, verso le 13 quando in Piazza mi frammischiavo alla gente per ascoltare la radio che diramava il bollettino di guerra, amplificato dagli altoparlanti davanti alla Casa del Fascio: <<il quartier generale delle forze armate comunica…>> e una sequela di notizie spiacevoli e deprimenti, ormai, che non lasciavano adito ad alcuna speranza.
C’erano pochi ragazzi della mia età in Piazza ad ascoltare le notizie della guerra e quei pochi non dovevano comprendere un gran che; io ero riuscito ad addomesticare l’orecchio a quel linguaggio rigido e burocratico, a volte artatamente laconico e comprendevo qualcosa, anche perchè leggevo il giornale rubandolo dalle tasche di papà.
Dopo il giornale radio, correndo come un podista, andavo a cercare mio padre in ufficio e lo ragguagliavo sui quotidiani eventi bellici.
Le mie giornate erano vuote, come stanze senza mobili, e me ne stavo a intristire sfaccendato. M’arrugginivo come una macchina ferma. Mio padre si doleva che io non avessi amici e un giorno, dopo avermi rimproverato per tale anomalia, mi suggerì: <<Vuoi un rimedio per non annoiarti? Adesso che hai nove anni, il cervello sgombro e bianco, che può assumere con facilità ogni cognizione, perchè è come una carta assorbente pulita, impara il telegrafo! Potrai venire a far pratica da me in ufficio. Vedrai, sarà per te un gran divertimento>>.
Accettai l’invito, sedotto dalla prospettiva di poter stare in ufficio a tenergli compagnia. Dopo un paio di giorni, mandato a memoria l’alfabeto Morse, punti e linee – prima le lettere e poi i numeri – iniziai gli esercizi pratici. Al mattino andavo in ufficio col mio genitore e mi allenavo con un tasto a paletta su un circuito ove il movimento dei dispacci era quasi nullo e che, per questo, rimaneva spesso libero. Confesso che il gioco, tale era per me questo esercizio, mi piaceva. Una lunga teoria di simboli si traduceva in parole e frasi compiute e mi procurava un’intima soddisfazione apprendere il linguaggio crittografico del telegrafo. In due mesi, dopo sistematici e pazienti esercizi giornalieri, divenni telegrafista e dopo un mese ancora potevo considerarmi <<bravo>>.
Alla riapertura delle scuole non ero capace di insistere sui libri, pervaso da una strana effervescenza, come se avessi un senso in più degli altri e tale senso dovessi esercitare per evitare che si atrofizzasse. Mi applicavo allo studio per quel tanto che mi permetteva di navigare nell’aurea sufficienza; nel pomeriggio andavo in ufficio, da mio padre il quale pregava l’impiegato addetto sul circuito di Bari di lasciarmi trasmettere e ricevere qualche telegramma, si fidasse pure di me. Per me quell’esercizio, niente affatto faticoso, costituiva una pratica sportiva, proprio come le lunghe e indispensabili volate alle quali non rinunciavo verso l’imbrunire: il corso si popolava di studenti, su e giù a sentir la musichetta, rassegnata e meschina, che si diffondeva dai negozi di radio e nel cielo si infittiva il carosello beato dei grossi uccelli che avevano nidificato sul campanile della Cattedrale; si ingigantiva il loro stridio lontano, che sembrava provenire da un mondo lontano.
Dopo otto mesi divenni capace di ricevere ad udito, non avendo più bisogno di decifrare quella bianca, sottile fettuccia di carta (chiamata in gergo tecnico <<zona>>); mi bastava udire il monotono ticchettio, apparentemente uniforme, della macchina ricevente per intendere il significato delle parole che venivano trasmesse. Mi creai, per questa naturale bravura o, meglio, disinvoltura, una certa aureola di <<enfant prodige>>. Mi chiamavano <<ragazzo>> e tale parola mi procurava un vago fastidio per il suo significato infantile che disdegnavo, in contrasto con i miei atteggiamenti intimi ed esteriori. Se si eccettuava la voluttà della corsa, non possedevo nulla che potesse accomunarmi ai miei coetanei: giocare per le viuzze buie a mani in alto – chi era Tom Mix, chi il Vecchio e chi il Traditore – mi sembrava stupido e fingere di essere intrepidi e forti; eppoi tra ragazzi non ci si metteva mai d’accordo su chi dovesse essere il vincitore di questi scontri ad immaginari colpi di pistola. Una irrazionale coerenza, troppo presto acquistata, mi distaccava, quindi, dagli altri ragazzi, dei quali mi sentivo più adulto, passato definitivamente, alla svelta, ad una diversa categoria, con altre aspirazioni.
Certamente mio padre dovette parlare in giro di me, come di un inspiegabile prodigio, giacchè a nove anni conoscevo il telegrafo ad udito, esagerando come sanno fare i genitori. Un giorno dopo essersi lamentato, a borbottii, dell’abitudine di far indossare il sabato la camicia nera, mio padre mi comunicò una curiosa notizia:
<< Ti vogliono alla Gil (Gioventù italiana del Littorio) a fare l’istruttore>>.
<<Istruttore? Di che?>>.
<<E’ un corso di telegrafia per Giovani Italiane, tutte brave signorine. C’è da trasmettere, in una grande aula, con un tasto a cicalino e controllare l’esattezza delle risposte delle signorine. Insomma pratica di radiotelegrafia>>.
Seppi che il corso era stato iniziato dal professor Desiole, mediocre radiotelegrafista, come potetti accorgermi in seguito, lento come una lumaca, che ormai aveva perduto la pratica acquisita tanti anni addietro quando era soldato di leva nel Genio, e non poteva proseguirlo per i suoi impegni. Il Federale, d’altro canto, non ammetteva che il corso venisse sospeso: doveva renderne ragione in più alte sfere.
Fu così che, con un certo orgoglio fanciullesco, mi presentai alla Gil del prof. Desiole, alto gerarca del fascio locale, triste, sfiduciato e senza speranza – il fascismo era pelle e ossa, prossimo a morire -. Mi ricevette nel suo ufficio: era seduto dietro una scrivania, col ritratto del Duce sulla testa, come un dio; in un angolo della stanza, in momentanea siesta o in definitiva agonia, non si sapeva, vari gagliardetti neri, con teste di morto al centro. Alle bianche pareti della stanza, spaziosa e piena di luce, erano affissi vari quadri con l’effige maschia e volitiva dei pezzi grossi del partito.
Confesso che dissi subito di si. Quando mi accompagnò in aula, e già c’erano le signorine con le cuffie in testa pronte per gli esercizi, divenni rosso. Erano le più belle ragazze di A.; le vedevo spesso a passeggio la sera, alla villetta. Mi guardavano esterrefatte, con maliziosa meraviglia. mi vergognavo d’avere i pantaloni corti, il viso da bambino, coi capelli biondastri e indocili, pettinati con la scriminatura.
Condussi gli esercizi alla perfezione e le allieve si dimostrarono abbastanza diligenti. I giovani impiegati di mio padre, quando lo seppero, manifestarono la loro aperta e giustificata invidia: <<Fortunato te, che puoi parlare a tante belle ragazze>>, e tra di loro <<il pane a chi non ha denti, c’è Anna Tesconi, una ragazza che dice mangiami mangiami>>. Queste espressioni di gallismo, come si dice adesso, – ma è una naturale invadenza mascolina – mi stomacarono, anche perchè non ero un soggetto giunto a maturazione, nè deteriorato da necessità di tal genere: la donna rimaneva ai miei occhi una elegante sembianza, bella a vedersi.
Tuttavia mi innervosivo, e quando un’allieva, a mia richiesta, mi ripeteva la frase che avevo trasmesso in cuffia, come quelle scritte nei sillabari delle scuole elementari, la sua dolce voce femminile mi dava un’emozione nuova, già mai provata, un senso musicale di corrosiva beatitudine. Diventavo rosso, le parole mi uscivano di bocca stranamente sincopate; decisi di non fare più l’istruttore, di liberarmi di una tale inspiegabile oppressione. Il giorno dopo, senza dir niente, non mi presentai; mio padre riferì al prof. Desiole: <<il ragazzo non ne vuol sapere più niente>>, ma dopo due giorni ricevetti una curiosa cartolina. Mi si faceva obbligo di presentarmi alla Gil, entro tre giorni, per comunicazioni urgenti che mi riguardavano. In caso contrario sarei stato prelevato con la forza dai carabinieri. Era la prima volta che prendevo cognizione di questa ricattatoria perentorietà. Avevo fatto la conoscenza del Fascismo in sogno, come un mistico amore sconosciuto, a tre anni quando mio padre, come si usava, mi aveva fatto fotografare – a stento mi reggevo in piedi – con un fez in testa, pantaloni e camicia nera, una bandoliera bianca a X e lo stemma M di metallo lucido in petto, figlio di non so quale lupa; e va bene: i cortei e le adunate erano pittoresche, coreografiche manifestazioni che turbavano la mia fantasia di adolescente; i ragazzi amano la truculenza, davvero, o, almeno, l’amavano.
Sapevano cantare bene <<con i baffi del Negus faremo gli spazzolini>> senza trovare in ciò sadismo ed eccessiva cretineria autolesionista, e <<Bretagna, è finita per te la cuccagna>>. Epperò i ragazzi hanno il senso fisico della libertà; non si può dir loro <<non uscire>> o <<rientra presto stasera>>. Istantanea fu quindi l’antipatia che quell’invito coercitivo generò verso il professor Desiole e, di riflesso, tutti i fascisti. Mio padre mi disse: <<sii buono e vacci>>.
Il professor Desiole mi accolse con calma. Me lo aspettavo cattivo e temevo chi sa quali rimproveri;notai, invece, che era gentile e remissivo. <<Non preoccuparti della cartolina, mi disse, sono già predisposte a stampa e l’ho usata per farti venire qui subito. Devi ultimare il corso. Io sono molto occupato: insegnare – e adesso ho il turno pomeridiano con tutte queste aule che mancano -, organizzare le manifestazioni, interessarmi del refettorio, occuparmi della Siae la sera, al cinema; non ho assolutamente tempo e tra quindici giorni avremo la visita del Federale>>.
Non rispondevo. Il mio tacito assenso lo rincuorò.
<<In premio, mi confortò, libero ingresso al Cinema Mercadante, ti farò dare un tesserino>>.
Mi piaceva andare al cinema, specialmente quando erano in programma film di cappa e spada, con duelli e agguati emozionanti, e non mi tirai indietro. Decisi di andare ogni sera al cinema, anche quando proiettavano quei film d’amore che io non capivo, sempre baci e abbracci, telefoni bianchi e stanze chiuse, mentre preferivo il cinema all’aria aperta, di movimento.
Con le signorine cercavo di arrossire il meno possibile; mi pulivo le scarpe quel giorno, mia madre mi azzimava come un giovinotto perchè <<ci sono le signorine e devi presentarti in modo decente>>.
Non fui fortunato, per il cinema: credevo di aver trovato la cuccagna, andare sempre al cinema gratis, immaginate che bellezza. Le lezioni vennero riprese il 19 luglio 1943 ed è noto quel che avvenne pochi giorni dopo.
<<Questo tesserino, mi disse la maschera del Mercadante, non è più valido>> e me lo lacerò senza pietà. Per quella sera, comunque, non seppe dirmi di no ed entrai gratis.
Alfio Tarullo
per Corriere del Giorno del 7 ottobre 1962