Brundarte visita presso la sala dell’Arengo del Palazzo dei Consoli di Gubbio, la mostra “Antichi Strumenti di Tortura e Pena di Morte”, a cura di ‘Gubbio Cultura Multiservizi’ in collaborazione con il Museo della Tortura di San Gimignano, che da più di 30 anni si dedica alla gestione e organizzazione di esposizioni itineranti con eventi presenti a livello mondiale.
La mostra annovera strumenti unici al mondo e ha riscosso e continua a riscuotere da parte del pubblico grandi consensi per la sua forte e chiara valenza storica. Oltre 50 gli strumenti disegnati per torturare ed uccidere alcuni dei quali, come la Vergine di Norimberga, la Ghigliottina, il Banco di Stiramento, la Sedia Inquisitoria, molto conosciuti.
L’allestimento annovera pezzi di eccezionale rarità risalenti al XVI, XVII e XVIII secolo e ricostruzioni filologiche dell’ Otto e Novecento di originali antichi e introvabili. Attraverso un viaggio tra gli strumenti di esecuzione capitale, tortura e pubblico ludibrio, questa esposizione racconta una storia di orrori che la nostra coscienza ha rimosso. La finalità dell’esposizione è proprio l’esercizio della memoria, allo scopo di documentare le aberrazioni dell’intolleranza e del fanatismo di cui l’uomo è capace quando vuole provocare intenzionalmente sofferenza e morte ad altri esseri umani.
Abolire la tortura
L’obbiettivo della mostra è quello di lanciare un messaggio contro la tortura, ma è un grido d’allarme per il futuro. In un momento in cui tornano in modo sinistro agli onori della cronaca quotidiana temi come l’antisemitismo, l’intolleranza, il razzismo, la violenza, la guerra, questo progetto, articolato secondo diverse iniziative culturali, rappresenta sicuramente un momento di riflessione, un invito a ricordare per non dimenticare.
Una Mostra in definitiva che vuole essere non solo un atto di accusa e di denuncia contro la tortura e la pena di morte o qualsiasi trattamento inumano e degradante, ma che vuole anche richiamare l’attenzione su quei Paesi dove ancor oggi garantismo e democrazia sono valori lontani. Secondo un rapporto redatto da Amnesty International, sono circa 140 i Paesi del mondo dove attualmente hanno luogo gravi violazioni dei diritti umani. Questi abusi esigono una risposta a livello internazionale: la protezione dei diritti umani è una responsabilità universale che trascende i limiti di nazionalità, razza e ideologia (politica o religiosa che sia).
“Ognuno di noi, nel suo tempo e nel suo spazio, in grande o in piccolo, è sempre responsabile di tutto quello che accade nel mondo”
“Assecondare il silenzio o la disinformazione significa rendersi complici”
(Padre D.M. Turoldo)
Botte chiodata
Denudato e spinto dentro una botte irta di punte di ferro o di chiodi, il condannato si trova rinchiuso in un ambiente claustrofobico, che, una volta tappato, diventa completamente buio. All’interno su qualsiasi superficie cerchi appoggio trova ferri o chiodi che gli penetrano nella carne. Quando la botte inizia a essere rotolata, perde ogni riferimento e rimanendo a lungo lucido e in piena coscienza viene continuamente trafitto. Prima ancora di essere lanciato lungo un pendio e di andare a sfracellarsi contro una scogliera il corpo è già ridotto ad un ammasso sanguinolento. In questo caso è da notare come la semplicità di uno strumento d’uso quotidiano come una botte possa, attraverso un percorso ingegnoso e perverso, trasformarsi in una terribile tortura. Alla botte chiodata è associato il supplizio del Console Romano Attilio Regolo, avvenuto nel 256 avanti Cristo.
Anelli spaccatesta e Spaccaginocchio
Collocati intorno al cranio della vittima, questi arnesi (a destra nella foto sotto) che erano dotati di borchie nella parte interna, venivano progressivamente stretti con un meccanismo a vite. L’anello si stringeva sempre più, prima facendo penetrare profondamente gli aculei dentro la carne e poi intaccando l’osso del cranio. La forza applicata poteva portare al completo distacco della calotta cranica, all’espulsione dei bulbi oculari dalle orbite e alla fuoriuscita di materia cerebrale dalle narici.
Lo Spaccaginocchio (a sinistra nella foto sotto)
veniva usato per la lacerazione di braccia o di gambe e spesso applicato al ginocchio o al gomito, articolazioni che gli aculei possono distruggere permanentemente.
Collare spinato
Munito di aculei su tutti i lati, questo strumento, che pesa più di cinque chilogrammi, viene serrato al collo della vittima. Il collare, in queste circostanze, diventa uno strumento di esecuzione: l’erosione fino alle ossa della poca carne del collo, della mascella e delle spalle, la cancrena dilagante, la setticemia febbrile, l’erosione poi delle ossa e specie delle vertebre denudate, portano al collasso letale in poco tempo.
Schiacciapollici
Semplice ed efficacissimo, lo schiacciamento delle nocche, delle falangi e delle unghie è un tormento fra i più antichi. La resa, in termini di agonia inflitta in ragione allo sforzo investito e al tempo consumato, è soddisfacentissima, specie dove mancano attrezzature complesse e costose, e senza dubbio induce presto alla confessione nella maggioranza dei casi.
Maschere d’infamia
Questi congegni, che negli anni che vanno dal 1500 al 1800 esistevano a profusione, di forme fantasiose ed a volte addirittura artistiche, venivano usati per infliggere pene a chi aveva manifestato, incautamente, il proprio malcontento verso il potere costituito. Le vittime, serrate nelle maschere ed esposte in piazza, venivano anche malmenate dalla folla. Percosse dolorose, imbrattamenti con sterco ed orina e ferimenti anche gravi e mortali segnavano la loro sorte.
Ceppo della pubblica gogna
Anche se il cinema e i fumetti ne hanno fornito una versione edulcorata, la gogna nella realtà dei fatti era un autentico supplizio. La vittima, con le mani e i piedi serrati nelle apposite aperture, veniva esposta alle violenze e alle crudeltà di tutti i passanti. Tutti erano autorizzati, davanti alla gogna, ad agire secondo l’impulso stuzzicando, schiaffeggiando, ferendo, spalmando sterco e orina in bocca, nelle orecchie, nel naso. A tutto questo va poi aggiunto che in alcuni casi si procedeva al lancio di sassi, alla lapidazione vera e propria, ustioni di vario grado e mutilazioni di ogni tipo.
Violone delle comari
Più che uno strumento di tortura vero e proprio, rappresentava un istituto della giustizia punitiva medioevale ed era usato pubblicamente nei confronti di quelle signore che avessero dato luogo a scandalo o fossero state troppo bisbetiche o litigiose.
Sedia inquisitoria
Questo è un attrezzo basilare dell’arte dell’inquisitore. Il torturato vi veniva fatto sedere nudo e le cinghie lo stringevano lentamente, in modo che gli aculei gli penetrassero nelle carni. L’effetto degli aculei sulla vittima, sovente nuda, è ovvio e non esige commento. L’interrogatorio poteva essere acuito mediante dondolio e percosse sugli arti. Il pianale era spesso tutto di ferro e poteva essere arroventato a mezzo di braciere o di fiaccola. Le versioni moderne sono elettrificate.
Garrota
Una variante della sedia inquisitoria era la Garrota. Lo strumento serviva allo strangolamento dei condannati e nella sua forma più diffusa un meccanismo tirava indietro l’anello messo al collo della vittima fino a procurarne l’asfissia. Ma molte furono le varianti apportate sia per scopi di torture inquisitorie che di morte.
Banco di stiramento
Lo stiramento, o allungamento, era in uso già dai tempi antichi, ben prima dei Romani, da parte di egizi e babilonesi. Nel Medioevo divenne un elemento basilare della tortura: la vittima, sdraiata e legata sul banco, viene allungata centimetro dopo centimetro con la forza dell’argano. La vittima nella fase iniziale soffre lo slogamento delle spalle a causa della distorsione delle braccia all’indietro e in alto, nonchè l’agonia dei muscoli che si strappano. Nella seconda fase le articolazioni delle ginocchia, dei gomiti e delle anche escono dalle loro sedi. Infine nella terza fase il corpo è ridotto a una massa disarticolata, le funzioni vitali si spengono una dopo l’altra finchè non sopraggiunge la morte. Alcuni esemplari sono muniti di rulli spinati, che rappresentano un ulteriore perfezionamento del sistema di tortura.
Cintura di castità (a sinistra)
Un’imperitura mitologia popolare mistifica questi arnesi sostenendo che essi servissero per assicurare la fedeltà delle mogli, specie dei cavalieri crociati, durante le lunghe assenze dei mariti; nella realtà sarebbero morte per setticemia a causa dei residui organici tossici e per le abrasioni e ferite provocate dal prolungato contatto con le parti in ferro. L’uso prevalente della cintura era ben diverso: quello di far da barriera contro lo stupro in tempi di acquartieramento di soldati in paese, durante i pernottamenti in locande e in viaggio in genere (specie via mare). La cintura può essere definita uno strumento di tortura in quanto questa umiliazione è imposta dal terrore di dover subire senza volere le violenze di un uomo.
La pera orale, rettale e vaginale (a destra)
Questi strumenti si usavano – e si usano tuttora, non più ornati ma essenzialmente invariati – nel formato orale, rettale ed in quello vaginale, più grande. Vengono forzati nel corpo della vittima, ed indi espansi a forza di vite al massimo diametro dei segmenti. L’interno della cavità colpita viene irrimediabilmente, e quasi sempre fatalmente, dilaniato grazie anche alle punte che sporgono dai tre segmenti.
Mordacchia o Bavaglio di ferro
Diverse sentenze e testi legali del Sant’Uffizio dell’Inquisizione descrivono la mordacchia come uno strumento usato per punire il condannato ad un autodafe’ ovvero uno spettacolo, di norma pubblico, in cui le sentenze venivano lette ed eseguite. Le cronache scrivono vari tipi di mordacchie: Giordano Bruno, che fu uno dei pensatori piu’ brillanti del suo tempo e che morì arso vivo in piazza del Campo dei Fiori a Roma nel 1600, indossava una mordacchia con lunghe punte acuminate, una delle quali perforava la lingua, l’altra il palato. L’obiettivo della mordacchia era che il disgraziato dovesse morire in modo lento e atroce ma senza che le sue urla e le maledizioni potessero arrivare a destinazione. Spesso questi spettacoli di molteplici eretici arsi sul rogo erano accompagnati da musiche di intrattenimento per allietare la folla e le urla avrebbero arrecato disturbo. Che si trattasse di mordacchia con punta per perforare la lingua o che fosse la versione in forma di scatola di ferro da mettere a forza nella bocca della vittima, ed in questo caso munita di un piccolo foro che poteva essere chiuso dal carnefice per far morire soffocata la vittima, questo tipo di strumento aveva come scopo primario di tenere in silenzio il condannato.
Vergine di Norimberga
La storia della tortura ricorda molti congegni che operavano col principio del sarcofago antropomorfo a due ante e con aculei all’interno che penetravano, con la chiusura delle ante, nel corpo della vittima. L’esempio più famoso è la cosiddetta “Vergine di Ferro” [die eiserne Jungfrau] del castello di Norimberga, distrutta dai bombardamenti del 1944. E’ probabile che gli aculei di allora fossero rimovibili e ricollocabili in vari alloggi praticati all’interno, secondo le esigenze della punizione.
Scure per mutilazione
Il taglio della mano del ladro viene inflitta tutt’oggi in diversi paesi islamici. In Europa era procedura quotidiana sino alla fine del settecento. Fortunato il ladro che doveva subire solo il taglio! Un altro metodo era il martellamento della mano su un’incudine o una zeppa di ferro, riducendola in poltiglia.
Flagello a catena
Non occorrono molti commenti riguardo questo attrezzo, che sembra più un’arma da guerra che non uno strumento di tortura; eppure, nonostante questa apparenza, flagelli più o meno simili, ma in grande varietà – con due, tre e persino otto catene più o meno lunghe, munite di più “stelle” oppure coadiuvati da verghe d’acciaio taglienti come rasoi – si usavano, e limitatamente si usano tuttora, per la fustigazione del corpo umano. E’ evidente che un corpo così trattato viene distrutto: spolpato fino alle ossa, le ossa frantumate.
Spada del boia
Il condannato veniva fatto inginocchiare o sedere, mentre il boia si metteva alle sue spalle. Con un ampio movimento laterale delle braccia il carnefice assestava un unico violentissimo colpo fra capo e collo. L’obiettivo di un lavoro perfettamente eseguito era staccare la testa di netto. L’esecuzione del gesto era però tutt’altro che semplice, per la violenza che si doveva imprimere al colpo e per la precisione con cui si doveva arrivare ad una zona determinata del collo. Il mestiere di boia, che secondo una consuetudine tipicamente medievale si tramandava spesso di padre in figlio, serviva proprio ad evitare colpi maldestri. Purtroppo nonostante l’allenamento con capre, pecore e cadaveri non era raro che il boia mancasse la mira più volte. Poteva succedere, ed è successo, che il popolo inferocito per questo scempio si risolvesse ad eliminare anche il boia oltre che il condannato. A morire per spada erano però le classi agiate e nobili, ai poveracci toccavano lunghe agonie.
Ghigliottina
Macchina per decapitazione, così chiamata dal nome del medico francese Joseph- Ignace Guillotin, che ne propose l’adozione nel 1789 quale metodo di esecuzione meno doloroso e più umano. Ma la ghigliottina non è una invenzione francese, versioni simili di questa macchina venivano utilizzate in Inghilterra già dal 1300, ed in Italia e Scozia dal 1500. In Francia, la prima macchina fu posta in opera il 25 aprile 1792 nella Place de Grève a Parigi diventando presto il simbolo di quei famigerati anni del Terrore. Si stima che durante il periodo rivoluzionario siano state giustiziate tra le 15.000 e le 25.000 persone. Tra i condannati famosi ricordiamo Maria Antonietta e Luigi XVI, Regina e Re di Francia. In seguito la scienza scoprì che lo strumento non provocava una morte istantanea ed indolore: una testa recisa è consapevole della sua sorte, la percezione si spegne solo dopo qualche secondo. Pur sostenendo in molti che la ghigliottina meccanizzava e disumanizzava la morte, essa fu impiegata fino all’abolizione della Pena di morte in Francia nel 1981.
Spezzamento con ruota ferrata
Questo tipo di supplizio, capace di arrecare terribili sofferenze prima di procurare la morte, è di origine antichissima. Per molti storici potrebbe avere anche significati religiosi perchè presenta notevoli similitudini con il supplizio della croce. Già in epoca romana è descritta da diversi autori, ma nel corso del tempo ha cambiato forma e modalità. Nella forma più consueta, in uso in Germania, si spaccavano le ossa della vittima e le sue articolazioni direttamente con una ruota di carro: il manichino informe che rimaneva dopo simile trattamento veniva legato alla ruota stessa e issato su un palo perchè fossero il dolore e le emorragie a provocarne, lentamente, la morte. In altri paesi europei come Italia, Francia o Spagna pur rimanendo sostanzialmente identica la meccanica che conduceva il condannato ad essere legato alla ruota, si avviava il supplizio frantumando le ossa degli arti principali con delle mazze ferrate o con delle sbarre. In ogni caso il corpo esposto sulla ruota deve rimanere a marcire e imputridirsi perchè possa essere un monito per tutti i passanti.
Aquilone del Vescovo
E’ ancora sconosciuto il motivo della denominazione di questo strumento di tortura, che compare in alcuni documenti toscani del Seicento. Lo strumento è un congegno di contenzione, simile ad altri che si conoscono in tutto il mondo, che imbriglia il prigioniero lasciandogli libera una gamba, così che possa muoversi e “camminare” come un grottesco uccello, azzoppato e crocifisso. Rinchiuso in questa “trappola” era soggetto a successive torture oppure lasciato morire di stenti. Dai documenti risulta che venisse usato in Toscana per la punizione dei condannati ai lavori forzati a partire dal 1500.
Cicogna di storpiatura
La cicogna di storpiatura immobilizzava totalmente la vittima ed era costituita da un’asta che bloccava il collo, polsi e caviglie. Pur sembrando, dalle prime apparenze, solo un altro metodo di incatenamento, ossia di costrizione, la “cicogna” induce nella vittima, spesso dopo pochi minuti, forti crampi, prima nei muscoli addominali e rettali, ed in seguito in quelli pettorali, cervicali e degli arti.
Carriola dei lavoratori forzati
In epoca medievale era una pena che assumeva più gradi di sofferenza, prima di tutto chi vi veniva ammanettato sapeva che non se ne sarebbe più separato fino alla morte. Dalla condanna ai lavori forzati derivava un lento ed inesorabile abbrutimento, costretti a vagabondare per le vie della città, raccoglievano nella carriola sporcizia e liquami di uomini e animali. Il più delle volte scalzi, maleodoranti, vestiti di stracci girovagavano alla ricerca di escrementi con una campanella al collo che ne annunciava l’arrivo. Non esistendo un sistema fognario si era soliti gettare dalle finestre escrementi vari. Era frequente che i forzati, annunciati dal sonaglio, finissero bersagliati dagli escrementi che piovevano dalle finestre dei palazzi: purtroppo per loro, era poco il contenuto dei vasi che centrava la carriola, il resto o finiva loro addosso o andava prontamente raccolto.
La sega
La vittima era tenuta capovolta affinchè il dissanguamento fosse più lento e il maggior afflusso di sangue al cervello acuisse la sensibilità al dolore. Venivano puniti con la sega coloro che si erano macchiati di ribellione, coloro che avevano disubbidito agli ordini militari, coloro che venivano accusati di stregoneria, oltre agli omosessuali a cui venivano devastati i genitali.
Le gabbie pensili
Sino alla fine del ‘700, i panorami urbani e suburbani europei abbondavano di gabbie in ferro e in legno affisse all’esterno dei palazzi comunali e ducali, ai palazzi di giustizia, alle cattedrali, alle mura cittadine ed in cima ad alte forche erette presso gli incroci delle strade maestre. La procedura d’uso era semplice. La vittima veniva rinchiusa ed appesa. Moriva di fame e di sete, sorte questa coadiuvata d’inverno dalle intemperie e dal gelo, d’estate dalle scottature solari; spesso la vittima era stata anche torturata e mutilata, per meglio servire da ammonimento edificante. Il cadavere in putrefazione generalmente rimaneva in situ fino al distacco delle ossa.
Pinze e tenaglie arroventate
Le tenaglie roventi erano per lo più adoperate per amputare e contemporaneamente cauterizzare le ferite, così da evitare il rapido dissanguamento delle vittima.
Tutto quello che era asportabile veniva rimosso per mezzo di pinze roventi, a cominciare dalla lingua, per continuare con gli occhi e via di seguito senza, naturalmente, tralasciare i genitali.
Spesso le torture rendevano storpi e sciancati per il resto della loro vita coloro che le avevano subite, se era loro concesso di vivere.
Metodologie di messa al palo
Si tratta della tortura per eccellenza nell’antichità, amata soprattutto dai popoli del Mediterraneo, ma venne utilizzata spesso e volentieri anche durante il medioevo.
La morte sopraggiungeva lentamente, dopo un’agonia indescrivibile e che si protraeva per giorni. Si poteva aumentare la sofferenza del condannato in svariati modi, a seconda della malvagità del boia: a volte venivano fratturate le gambe con dei forti colpi, oppure si laceravano il volto, o i seni, con strumenti spinosi o uncinati; in altri casi s’infilavano stecche o bastoni nel condotto uretrale od anale della vittima.
I Romani solevano lasciare i corpi a marcire sulla croce finché non rimanessero solo le ossa nude, mentre gli Ebrei li toglievano non appena sopraggiungeva la morte e li seppellivano il giorno stesso. Alcuni tipi di crocifissione e messa al palo:
A. Sospensione per una gamba
B. Sospensione a due gambe
C. Crocifissione a testa in su
D. Crocifissione a testa in giù
E. Torturato appeso per entrambe le braccia con pesanti oggetti appesi ai piedi
F. Donne sospese per i capelli.
G. Torturati appesi per un solo braccio, con pesanti pietre appese ai loro piedi
Il cavalletto
Il condannato veniva posto a cavalcioni in una struttura a V, come su un cavallo; Lo spigolo penetrava nelle carni compromettendo irrimediabilmente gli organi genitali. Venivano poi posti dei pesi ai suoi piedi affinché egli venisse tirato sempre più giù. Questa tortura faceva si che le articolazioni del condannato si slogassero e che tutte le sue membra venissero disarticolate dalle giunture.
Culla di Giuda o la “Veglia”
All’imputato veniva stretta una cintura all’altezza dell’addome, gli si poneva una stecca all’altezza delle caviglie in modo che si potessero muovere le gambe soltanto simultaneamente e tramite un complesso sistema di corde, veniva tenuto sospeso al di sopra di un cuneo appuntito sostenuto da un cavalletto. Allentando la corda principale e tirando in avanti le gambe, la punta veniva posizionata nell’ano, nella vagina, sotto i testicoli o sotto la base della colonna vertebrale. Il carnefice poteva variare la forza del peso gravante dal nulla alla totalità. La vittima poteva essere dondolata o fatta cadere sulla punta ripetutamente.
Questa tortura era tanto più terribile dal momento che implicava una veglia continua. La “veglia” era il risultato di una applicazione malefica dell’ingegneria atta a determinare il complesso sistema di corde e di movimenti. La penetrazione del cuneo era preordinata in modo tale da non provocare la morte, ma svenimenti o dolori indicibili. Un medico e un notaio dovevano assistere all’operazione, il primo per far ristabilire la vittima in caso di prossimità alla morte, onde poter far ricominciare la tortura, il secondo per verbalizzare ogni singolo momento degli accadimenti.
Collare per il baro
Fonte
Museo della tortura e della pena di morte