Una nota pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 20 luglio 2018 curata da Katiuscia Di Rocco, direttrice della Biblioteca Pubblica Arcivescovile “A. De Leo” su “Padre Brindisi” e la sua attualità.
“Non vi ha cosa, cui l’uom con attentissima provvida cura procurar debbe, quanto dagli anectodi raccoglier le memorie da valentuomini, le quali vivon in oblio, appunto per colpa di coloro che per indolenza, o per qualche altra cagione non esposero agli occhi”
Così padre Emanuele da Napoli nelle sue Memorie storiche sui santi o beati ai quali spesso la storia non aveva dato il giusto risalto. Per i francescani era da imitare la povertà, la cieca obbedienza, la disponibilità nell’aiutare i moribondi, l’umiltà, la dolcezza, la repressione delle passioni e l’imparzialità di fronte alle sofferenze. Messaggi che pareva arrivassero più dalle azioni che dalle parole. Anche le mortificazioni rappresentavano il tramite attraverso cui il linguaggio del santo si faceva umano ed il corpo il campo di una lotta quotidiana tra il bene e il male, Dio e il peccato. Però nell’estremo rigore dei digiuni o nel martirio delle pene autoinflitte la santità maschile era più discreta, ma nel prodigioso, nelle profezie e nella taumaturgia si presentava alla società come modello da seguire ed imitare attraverso l’esercizio delle virtù.
Virtù che dovevano essere necessariamente lontane dagli onori, per l’espressione di un’umiltà che rappresentava uno dei valori fondamentali della purezza. In questo panorama di santità barocca san Lorenzo da Brindisi era figura assai fuori dal comune sul piano intellettuale e spirituale.
Certo dell’importanza dell’umiltà era pur convito che “non fare il bene è lo stesso che fare il male, e non fare il bene con fervore significa deporre il talento sotto terra o tenere le lampade spente”.
Ebbe così diversi incarichi da cappellano delle truppe imperiali in Ungheria a Generale dell’Ordine, da Commissario generale a Provinciale, da Definitore ad Ambasciatore del Regno di Napoli presso Filippo III come ricorda Francesco Bernardo a Bononia nella Bibliotheca Scriptorum ordinis minorum S. Francisci Capuccinorum (apud Sebastianum Coleti, Venezia 1747).
Tutti incarichi dovuti al suo talento di abile predicatore manifestatosi fin dai primi anni di età quando
“di cinque in sei anni fu spesse volte ammesso o cortesemente chiamato formalmente a predicare nel pulpito di quell’insegna metropolitana, dove concorreva a gara ad udirlo quasi tutto intero quel popolo, invitato a suono di campane […]. Ed invero havere ragione quella città di farne grande stima, perché attesi gli affetti, le lagrime, i sospiri, esagerazioni, consigli, riprensioni, minacce, che gli si vedevano uscire più dal cuore, che dalla lingua, non si potea dubitare, che per lui non parlasse lo Spirito Santo”.
Il suo maestro padre Virgilio Iacone riconobbe, infatti, nel suo discepolo Lorenzo doti non comuni: acuto ingegno, memoria florida e forza di volontà, “doni celesti” da curare. Dopo le prime esperienze veneziane la voce del padre cappuccino che predicava con tanto amore verso Dio cominciò come un’eco a diffondersi per tutti gli Stati italiani. Per i contemporanei il suo ardore assomigliava a quello di san Paolo: pareva che dai suoi occhi mandasse una certa fiamma di severità e piacevolezza che appassionava e atterriva. Era tale e tanta la partecipazione del padre che spesso il volto si perdeva in lacrime e sudore, ma le parole continuavano ad essere ferme e forti.
D’altra parte quello che ai santi si conferiva era un vero e proprio “dono delle lacrime” versate in quantità stupefacente per i testimoni. Un dono che costituiva un segnale di grande pietà in un’epoca quale quella barocca in cui si attribuiva alle streghe e ai maghi l’incapacità di piangere.
Anche il modo di Lorenzo di prepararsi alla predica era estremamente singolare: si rinchiudeva nella sua cella, si inginocchiava davanti all’immagine della Vergine Maria e studiava la Bibbia per tre o quattro ore finché non si sentiva pronto a “spargere ai popoli quel fuoco divino” ruggendo come un leone.
Prediceva future calamità e castighi per chi non aveva timor di Dio e non conosceva la carità cristiana, virtù essenziale. Proprio per questa sua viva attitudine alle parole si volle che dirigesse la sua predica in particolare ai miscredenti e specialmente agli ebrei. Lorenzo aveva studiato l’ebraico ed era già stato mandato varie volte da papi, vescovi, prelati e governatori a convertire gli eretici. Proprio Gregorio XIII fu il primo a destinare il cappuccino brindisino a questo impiego in una chiesa di Roma dove gli ebrei avevano l’obbligo di convenire ogni sabato.
Portava con sé la Bibbia scritta in ebraico e con pazienza e profonda conoscenza delle Sacre Scritture concordava la cronologia dei tempi, mostrando la venuta del Messia, “gli stessi rabbini più eruditi restavano altamente storditi all’udire un Estero sì versato nel Libbri Ebraici, e nelle Ebraiche Antichità”.
A Casale fu pregato dall’arcivescovo Tullio Corretta di parlare in pubblico in una chiesa con la comunità ebraica della città. L’evento ebbe una notorietà strepitosa sia nell’aspettativa che si compisse sia per gli effetti che produsse così gli uomini si recarono nella chiesa processionalmente in fila per due, mentre ogni donna era accompagnata da un rispettabile della città. Quando il predicatore salì sul pulpito entrò subito nel vivo ragionando sulla venuta del Messia: il corpo della predica fu in ebraico, tranne quando spiegava passi particolarmente importanti usando il latino e l’italiano che comunque tutti comprendevano.
La forza degli argomenti usati fu tale e tanta che i suoi biografi raccontavano come usciti i maestri dalla sinagoga, confusi esclamassero “numquam sic Homo loquutus fuerat”. Il suo primo interesse era di parlare un linguaggio che tutti potessero capire e far proprio, senza necessità di portare testi con sé perché aveva alla base uno studio profondo delle Sacre Scritture che conosceva a memoria.
Così quando monsignore Spinelli, nunzio apostolico in Austria, lo chiamò per confrontarsi con i rabbini di Praga, Lorenzo accettò inerme. L’immagine che di questo evento dava padre Bonaventura da Coccaglio (Vita del b. Lorenzo da Brindisi generale dell’ordine de’ Cappuccini cavata da processi compilati per la sua beatificazione divisa in tre libri, Stamperia del Casaletti nel palazzo Massimi, Roma 1783) era di un uomo fermo non scomposto, che rispondeva a tutti i suoi eloquenti avversari con facilità e che anzi senza presidio alcuno di libri apriva i testi ebraici portati dai rabbini e spiegava loro i passi.
Il modello del padre brindisino proposto dai suoi biografi sette-ottocenteschi era di un uomo che nonostante la sua capacità oratoria e le sue alte qualità e conoscenze non inveiva mai contro suo avversario, ma con carità e piacevolezza continuava a chiamarlo “fratello”. Tutto ciò gli comportò il rispetto non solo delle alte gerarchie ecclesiastiche, ma degli stessi rappresentanti della religione ebraica: era un esempio di come fosse necessario avvicinarsi agli eretici e ai miscredenti:
“Ed eccola la necessità di fuggire il zelo ameno, che irrita, e non compunge; e non appigliarsi invece a quello spirito di carità, e dolcezza cristiana, che alletta, e commuove, qualor si brami trar frutto dai nostri parlari”. Così nell’opera Lutheranismi Hypotysis Giulio Cesare Russo impiantava una forte polemica con salde basi dialettiche contro la dottrina di Lutero partendo da Policarpo definito “vero eretico” e da Ario condannato nel Concilio Niceno per giungere a confutare ogni affermazione del “profeta precursore dell’anticristo”.
Nel modello di santità proposta, attraverso la capacità di Lorenzo di penetrare nei cuori e scorgervi il bene come un dono celeste, si esaltava come principale virtù l’umiltà che permetteva di avvicinare gli uomini e le donne ad un’idea di un Dio buono e giudice giusto. Nel Seicento vi erano più differenze tra la concezione della santità maschile e quella femminile, tra l’attività profetica e taumaturgica: le donne vivevano con maggiore profondità l’unione mistica con Cristo ciò consentiva loro di giungere alla profezia politica e religiosa, si veda a tal proposito la vita di santa Caterina da Siena e santa Maria Maddalena de’ Pazzi.
In compenso però la capacità di compiere miracoli era debole rispetto a quella maschile e non assumeva mai un ruolo centrale nella loro fama di santità, poiché essa era legata alle reliquie o alle preghiere e molto raramente ad un intervento diretto della santa o della venerabile. Gli uomini invece tendevano di più ad un intervento taumaturgico. Essi, infatti, prevedevano il futuro, ma il dono della profezia era più legato alla figura dei direttori spirituali, riuscendo a curare molte malattie in vita.
Così tutte le profezie fatte da padre Lorenzo: la ripresa della guerra in Italia per l’occupazione di Vercelli da parte della Spagna, la morte di Filippo III ed infine quella che probabilmente ottenne più notorietà, la previsione dell’estinzione del casato di Modena con la conseguente ripresa delle ostilità che avrebbero straziato la città emiliana (“Questo è il modo o Mantova di placar Dio? Corri di qua, corri di là. Adunque pensi, che le Guerre sien finite? Tu te ne accorgerai o Mantova, te ne accorgerai!”).
Tutto nella vita del padre cappuccino, ma soprattutto in morte, cominciava ad assumere un significato importante: le parti dei fazzoletti di tela usati dal santo per asciugarsi le lacrime durante le prediche; le immagini di padre Lorenzo; i digiuni in suo onore; il mantello e la berretta del “celeste medico”, tutto serviva per ottenere la salvezza sperata sia del corpo sia dell’anima, come nella descrizione del de’ Rossi da Voltaggio della miracolosa conversione di un eretico per mezzo di una reliquia del santo (Vita del venerabile servo di Dio p. Lorenzo da Brindesi, generale de’ frati minori Capuccini di san Francesco, Giovanni Tevernin all’Insegna della Provvidenza, Venezia 1754).
Proprio tali e tanti “doni divini” valsero a san Lorenzo l’epitaffio scritto da J. C. Veronensis nel quale lo si descriveva grande eloquente, di incontaminati costumi, di vita irreprensibile, fama santissima e pastore sommo (Bibliotheca Scriptorum ordinis minorum S. Francisci Capuccinorum, cit.).
Katiuscia Di Rocco