Su via Carmine, la famiglia Cafaro originaria di Lequile, con il dottor fisico Nicola Antonio edifica nel 1692 questa costruzione dalle linee barocche su case dirute comprate dai signori Villanova e Monticelli. Al casato appartiene lo stemma che si vede sul portale. La figlia Anna, erede testamentaria, sposerà Teodoro Ripa e il palazzo sarà da quel momento indicato come Ripa perchè lì abiterà la famiglia, destinando quello adiacente alla conduzione in fitto. Il patrimonio familiare, dopo diverse successioni fra gli eredi che ne provocarono la frammentazione, si dissolverà totalmente con il marchese Teodoro che lo aveva acquisito nel 1916, e con lui si estinguerà anche la linea maschile dei Ripa. Oggi, il palazzo divenuto di proprietà Piazzo, è in stato di abbandono.
“Palazzo Ripa con l’ornata facciata e il bel portale. Con bugnato a conchiglie, una bella finestra a colonne ricoperte di tralci e festoni, portale e scalini originali.” – questo scriveva Claudia Refice Taschetta, direttrice della Galleria Spada di Roma, dopo un’attenta valutazione dello “stato dell’arte” di Brindisi e del Palazzo Ripa in particolare, sul finire degli anni ’50.
Nel parlarne, lo storico N. Vacca sostiene che secondo lui, come sostenuto anche dal Moricino, non appartiene ai Ripa dell’epoca angioina che si erano oramai estinti, tristemente famosi per le feroci e cruente lotte coi Cavalerio, aggiungendo “per lo meno com’è attualmente”.
Questa frase apre lo spazio per un’informativa su queste storiche famiglie brindisine:
Tra le famiglie nobili della città eran quelle dei Cavalerio e dei Ripa di egual grandezza e potenza; come sempre avviene in questi casi, ci furono emulazioni e gare per il dominio che furono “pestifero seme d’intestini odii e di mortali inimicizie”.
Intorno ai Ripa si radunò la massa dei contadini e ai Cavalerio quella dei marinai, così la città risultò divisa in due opposte fazioni. La causa occasionale per lo scoppio dell’ira covata per così lungo tempo fu, nel 1346, la mancata riconferma di Filippo Ripa alla carica di “Protontino” o Capitano delle Galere a vantaggio del rivale Enrico Cavalerio, meglio introdotto a corte. L’odio divenne tanto più forte in quanto non passava giorno senza che, anche i familiari si tormentassero con ingiurie e offese.
Filippo, che non poteva con le sole forze proprie sfogare quell’inferno di furie che teneva in petto cominciò a congiurare contro i Cavalera rivolgendosi ai nobili suoi amici e facendo venire dalle città vicine un buon numero di gente sediziosa e scellerata. Raccolse così più di mille armati.
Quando il Governatore della Provincia Goffredo Gattola ebbe sentore di quello che stava succedendo, si portò immediatamente a Brindisi con tutta la corte, ma Filippo con i suoi armati entrò ostilmente in città e deposta la riverenza comandò temerariamente che questi uscisse subito dalla città se gli era cara la vita. Il Preside vedendo il pericolo se ne uscì senza proferir parola, lasciando la città in preda all’insolente ribelle. Il Protontino Enrico Cavalerio, con i suoi uomini, i parenti e gli amici, s’era fortificato nella propria casa, ma Filippo assaltandola ad uso di guerra, con arieti alle porte e scale alle finestre, e con fuoco intorno al Palazzo l’espugnò facilmente.
Furono uccise molte persone, ma la maggior parte degli assediati fece in tempo a prender le cose più preziose e a rifugiarsi nel Campanile della Cattedrale. Filippo avendo avuto in mano il suo principal nemico Enrico Cavalerio Protontino predetto, trascinatolo per terra per le chiome, gli troncò con le proprie mani la testa.
Quindi, assaltando il Campanile dove molti si erano rifugiati non potendo per l’altezza e fortezza espugnarlo, fece portare delle fascine, minacciando di arderli tutti vivi, se non s’arrendevano, non essendo il Campanile fatto a volta ma con grossissime travi e tavoloni, assicurando i nemici, in fede, di non offenderli nella persona.
Vedendo quei miseri che il fuoco già bruciava l’arida esca dei legni, senza speranza di scampar la morte scelsero di arrendersi volontariamente al tiranno.
Avutoli in suo potere il barbaro Ripa, comandò che tutti i resi sotto la sua parola fossero tagliati a pezzi, il che fu subito eseguito nella maggior parte di loro, carcerando il resto nelle pubbliche prigioni della città senza riguardo alla tenera età dei fanciulli e al debol sesso delle misere donne.
Diede poi in preda ai suoi accoliti non solo le case dei nemici ma anche quelle delle persone più facoltose, pagando con questo la sua infame milizia.
Poi fece portare sulla piazza uno dei carcerati, chiamato Andrea Polliano, e “gli fè dal boia troncar il capo, nel luogo solito della Giustizia con l’ordinarie cerimonie che s’usano fare dal magistrato in simili funzioni..Quest’atto inumano spaventò fortemente gli altri prigionieri che con grosse taglie furono riscattati dal macello.”
Dopo di ciò raccolse quanto di buono restava nelle case nemiche e poi le mise a ferro e fuoco. Portatosi in mare con le navi trovate nel porto, drizzò la prora verso l’Illiria, non prima di aver bruciato la nave di Raimondo del Balzo, che in tempi successivi ascese al grado supremo della Signoria del Regno.
Minacciato di arresto se fosse tornato, di lui non si parlò più e dovrà passare un secolo prima di incontrare ancora, nella storia di Brindisi, un altro Ripa.A. Della Monaca, Memoria Historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, p.464/8