Nella seconda metà dell’Ottocento, il tema del lavoro e della vita quotidiana si diffondono nella pittura italiana che inizia a volgere lo sguardo agli emarginati e alle classi meno agiate, rendendoli protagonisti. Con le nostre foto, scattate alla Galleria di Arte Moderna di Milano, speriamo di offrire una panoramica sui molti modi con cui l’arte ha narrato questo importante tema.
La scena, ambientata in una piazza del paese natale del pittore, rappresenta la protesta di un gruppo di lavoratori, la cui marcia verso un futuro luminoso rivendica la forza coesiva e la dignità del lavoro da cui deve partire il riscatto degli umili (o del popolo). Si tratta di un quadro monumentale a cui Pellizza lavorò tra il 1898 e il 1901, anni caratterizzati da scioperi, proteste e rivendicazioni della classe operaia, di cui la pittura si fa portavoce.
La tela è dipinta con piccoli tocchi, linee di colore puro, ottenendo una fitta trama di pennellate filamentose. Questa tecnica, in parallelo alle esperienze francesi, si basa sull’utilizzi dei “colori divisi”, ossia non mescolatisulla tavolozza ma stesi puri sulla tela: la sintesi avviene nell’occio dell’osservatore. Si mantiene così intatta la brillantezza e luminosità di ogni pigmento.
Tuttavia, se i puntinisti francesi erano interessati agli aspetti più scientifici della teoria dei colori, i divisionisti italiani cercavano di ottenere effetti luministici in grado di suggerire o accentuare anche emozioni e sentimenti. A questa tecnica Pellizza si era avvicinato già attorno al 1892, divenendo in breve uno dei principali rappresentanti del Divisionismo, insieme a Giovanni segantini e Gaetano Previati.
I personaggi sono tutti esistiti, si tratta di famigliari e conoscenti compaesani del pittore che posarono al vero per Pelizza. La loro identità non è sempre verificabile, fatta eccezione per le tre figure in primo piano di cui le fonti tramandano i nomi con precisione.
Partendo da destra, troviamo Teresa Bidone, sposata a Pellizza dal 1892 e morta prematuramente a trentadue anni. La donna regge a sé un fanciullo che potrebbe essere il piccolo Luigi Albasini, nato nel 1899, che si alternò nelle lunghe sedute di posa con la primogenita del pittore, Maria, a volte sostituto anche da un bambinello di gesso per praticità.
Il volto forse più noto del “Quarto Stato” è quello del personaggio centrale alla testa della fiumana. Barba folta, cappello calcato sulla testa, viso sprofondato nell’ombra, giacca sulla spalla e pollice nei calzoni. E’ Giovanni Zarri, nato nel 1854, muratore. La sua identità è comprovata dalle carte di Pellizza che attestano diverse sedute di posa dello Zarri. Di questa figura si conosce anche un grande cartone preparatorio per il quale Zarri posò dal vero per ben 12 giornate filate, ricevendo un regolare compenso di tre lire al giorno. Lo studio servì a Pellizza per definire il suo incedere monumentale ottenuto grazie ai volumi bilanciati e ad una sapiente modulazione del chiaroscuro.
Il terzo e ultimo personaggio che si staglia in primo piano nel “Quarto Stato” è Clemente Bidone noto anche come Giacomo. Nato nel 1844, già combattente nella III guerra d’indipendenza, Bidone fu tra i primi a posare per Pellizza. È sua la figura che il pittore studia per prima in un enorme cartone. Anziano falegname di Volpedo è colto anche lui mentre avanza con una mano nella camicia, giacca appesa alla spalla, barba folta e cappello.
Presentato al pubblico alla Quadriennale di Torino del 1902, il dipinto rimase invenduto, ma divenne in breve un simbolo celeberrimo e riprodotto. Nel 1920, nel clima incandescente del Biennio Rosso, il Quarto Stato raggiunse Milano in occasione di una mostra monografica alla Galleria Pesaro. Il clamore suscitato fu tale da promuovere una sottoscrizione pubblica per assicurare la tela alla città, trovando collocazione nella sala della Balla del Castello Sforzesco per poi passare alla Galleria di Arte Moderna nell’attuale sede della Villa Reale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il dipinto fu trasferito temporaneamente a Palazzo Marino, sede del municipio, come simbolo della conquista della democrazia e della riappropriazione dei diritti. Non a caso nel 1979 sarà scelto da Bernardo Bertolucci come incipit del film Novecento.
La sala dov’è collocata l’opera all’interno della GAM pone Il Quarto Stato in continuità e in dialogo con le opere circostanti, in un percorso che riassume, attraverso una serie di capolavori, il passaggio dall’Ottocento al Novecento
Antonio Carminati, Lavoro notturno, bambino a torso nudo, 1891
Questa opera dello scultore Carminati, esposta al centro della sala dedicata al Divisionismo, testimonia l’interesse dell’arte dell’epoca per i problemi sociali, qui in particolare dedicato allo sfruttamento del lavoro infantile. La scultura rappresenta infatti un giovinetto fornaio che, sfinito dal lavoro, si addormenta vinto dal sonno su un sacco di farina. La duttilità del materiale viene sfruttata a effetti luministici, pur nell’impostazione verista della figura.
Attilio Pusterla, Alle cucine economiche di Porta Nuova, mensa dei poveri, 1887
Verso la fine dell’Ottocento, Milano si apre all’industria e accoglie masse di operai, attirati dalla prospettiva di una vita migliore. Quello che trovano spesso invece è miseria e povertà. Il soggetto del pranzo in una mensa per i poveri affascina Pusterla che raffigura in questo dipinto uno spazio reale: le cucine dell’Opera Pia Cucine Economiche, inaugurate nel 1883 presso Porta Nuova, ed affacciate in quel tempo sul naviglio. Pur essendo cambiato completamente il contesto, lo stabile delle Cucine Economiche è tuttora esistente, quasi reliquia di una Milano che non c’è più.
L’opera, esposta a Brera nel 1887 ed acquistata da Alberto Grubicy, l’anno successivo venne esposta a Londra in una collettiva presentata da Vittore Grubicy de Dragon. Nel 1912, il dipinto venne venduto da Alberyo Grubicy alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Domenico Induno, Scuola di sartine, 1865
I fratelli Gerolamo e Domenico Induno si affermano sullo sfondo delle battaglie risorgimentali per l’unità nazionale come due tra i più decisi fautori del passaggio dalla pittura accademica a un nuovo modo di accostarsi alla realtà. Questa opera di Domenico mostra i riflessi dei pressanti problemi sociali sempre più pressanti, confrontandosi con la raffigurazione delle classi inferiori per la prima volta protagoniste.
Medardo Rosso, Scugnizzo, 1895
La Galleria d’Arte Moderna possiede uno dei nuclei più cospicui di opere di Medardo Rosso, scultore tra i più significativi nell’evoluzione del linguaggio figurativo a cavallo tra Otto e Novecento, artista per tanti versi appartato, fuori dalle principali correnti dell’Ottocento, ma al tempo stesso interprete di primaria importanza della modernità. Dopo una breve frequentazione dei corsi dell’Accademia di Brera a Milano, Rosso si forma in anni segnati dagli esiti più tardi del movimento scapigliato e da una crescente attenzione al contesto sociale cittadino. In questo ambito nascono le sue opere, i cui soggetti rimandano inizialmente a una Milano popolare con monelli, vecchi, prostitute, portinaie che gli offrono spunti realistici che affronta sempre con sguardo rapido e crudo.
Realizzato poco prima del soggiorno parigino di Rosso, questo bronzo, più volte riprodotto, è ridotto solo alla testa, di tre quarti, rivolta verso la spalla sospesa su una base di marmo, con lo sguardo orientato di lato. Come una sorta di ritratto psicologico, l’artista sembra voler far risaltare l’intelligenza e la furbizia del ragazzino. Inoltre la scelta del soggetto conferma l’interesse dell’artista per gli individui più semplici e umili.
Giovanni Segantini, Lavandaia alla fontana, 1886
Segantini spesso dipingeva scene di vita quotidiana, ritraendo lavoratori rurali, pastori e contadini. La sua capacità di catturare l’essenza di queste figure umane e di integrarle armoniosamente con la natura circostante rende il suo lavoro unico.
Enrico Butti – Il minatore, 1881
Siamo negli anni Ottanta dell’Ottocento. Il realismo comincia a farsi largo anche nella pittura e nella scultura, a fianco delle rivendicazioni sociali che chiedono lavori e paghe più umane.
Enrico Butti da Viggiù (Varese), quando scolpisce il Minatore è un’artista già affermato. Ha frequentato l’Accademia di Brera, dove poi insegnerà scultura. Uomo irrequieto e dal carattere esuberante, scolpisce e spesso distrugge le sue opere. I critici, per una volta con voce unanime, ritengono che il Minatore sia l’opera più importante dello scultore varesino.
E’ la rappresentazione della fatica umana, della forza lavoro sfruttata, delle condizioni malsane della vita dei minatori dell’epoca. Vite bruciate sotto terra per un tozzo di pane o poco più.
Il calco base dell’opera di Butti è realizzato in gesso. Su questa base sono state fatte alcune fusioni e copie identiche. La più nota è questa ben esposta in una sala piena di luce al primo piano della Galleria d’arte moderna, ospitata nella Villa Reale.
Angelo Morbelli, Giorni… ultimi! 1882-83
Angelo Morbelli (Alessandria, 1853 – Milano, 1919), uno dei grandi artisti del divisionismo, per circa trent’anni dipinse gli anziani del Pio Albergo Trivulzio di Milano, in opere intrise di malinconia, per raccontare tutta la solitudine, la disperazione e l’abbandono della vecchiaia.
Pellizza da Volpedo e Morbelli sono stati secondo la critica tra i più grandi nel raccontare la realtà attraverso quadri capaci di sfidare la società. Ed è quanto Morbelli ha cercato di fare a più riprese con i dipinti del Pio Albergo Trivulzio, luogo che l’artista d’origini piemontesi frequentò per tutta la carriera cercando di rappresentare i suoi ospiti, vecchi allontanati dalla società perché non ritenuti più utili, lavoratori che s’erano messi al servizio della nascente società industriale e che diventano emarginati nel momento in cui nessuno ha più bisogno di loro, anziani senza mezzi di sostentamento economico condannati a trascorrere gli ultimi scorci delle loro esistenze assieme a tanti altri derelitti come loro, in enormi ambienti promiscui, lontani da qualsiasi affetto. Primi rifiuti d’un mondo che cominciava a diventare frenetico, a sradicare abitudini secolari d’una società fino ad allora in gran parte contadina, a travolgere chiunque non avesse le forze per stare al passo.
Giorni… ultimi! è un’opera giovanile, che precede la svolta divisionista di Morbelli. Un’opera di successo, esposta a Brera, che riuscì ad aggiudicarsi il prestigioso Premio Fumagalli e un gran numero di critiche positive.
Il pennello di Morbelli cattura un brano di quotidianità nel grande salone del Pio Albergo Trivulzio: gli anziani ospiti siedono sulle lunghe panche del grande ambiente dedicato alle piccole attività quotidiane, e la luce radente fa risaltare i loro volti spenti e malinconici: alcuni leggono, altri hanno lo sguardo perso, altri ancora si reggono la testa e pensano, c’è chi tenta di scrivere, chi dorme, chi si guarda attorno spaesato. La scena è ricca di dettagli: le lunghe panche, la lampada appesa al soffitto, il tubo sulla parete di fondo, l’uomo che appoggia le mani all’enorme stufa per scaldarsi. Dettagli attraverso i quali l’artista indaga la realtà per sottolineare la condizione umana di sofferenza e per denunciare un problema concreto.
Constantin Meunier, Il pescatore di Ostenda, 1892
Costantin Meunier è stato un pittore e scultore belga. La povertà è un vero leitmotiv della sua opera, una povertà percepita nei suoi aspetti più reconditi ed esaltata nella sua profonda dignità.
La povertà si pone in sintonia con la personalità schiva dell’artista, abituato a lavorare nel silenzio e sopportando a fatica il peso di un ambiente troppo tradizionale.
Questo bronzo raffigura un pescatore, ritto in piedi con un cappello in testa. Le braccia sono distese lungo il corpo, la gamba destra è leggermente spostata in avanti. Porta ai piedi degli stivali tipici di questo mestiere.