Mostra “Sette secoli d’arte italiana” – Mesagne

La Mostra
La mostra “G7 – sette secoli d’arte italiana” nasce dall’idea di unire l’importante summit mondiale del giugno 2024 in Puglia ad una proposta culturale di conoscenza dell’arte italiana e si propone di celebrarla attraverso sette secoli, dal XIV al XX, presentando opere d’arte di alcuni dei principali maestri italiani.

La mostra, curata dal prof. Pierluigi Carofano e da un comitato scientifico da lui coordinato, offre al pubblico un’opportunità unica di immergersi nella ricchezza e nella bellezza dell’arte italiana. Da Leonardo Da Vinci e collaboratore con la Vergine delle Rocce (versione Cheramy) a Perugino, da Raffaello a Guido Reni, da Artemisia Gentileschi (tela restituita per fine prestito) a Canova, passando per Canaletto, De Nittis, Pascali e Burri, la mostra mira a promuovere la consapevolezza e l’apprezzamento dell’arte italiana, contribuendo alla sua valorizzazione sia a livello nazionale che internazionale. 51 capolavori originali per un viaggio nel tempo straordinario.

Orari e Accessi alla mostra
Orari di Apertura
La Mostra sarà aperta al pubblico dal 13 giugno 2024 al 7 gennaio 2025.
Tutti i giorni  dalle ore 9.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 20.00. 

Chiusa il lunedì mattina.

Intervista RAI all’assessore Marco Calò del comune di Mesagne con delega Cultura e Turismo

Sala 1 – Sezione 1 – Gli albori dell’arte italiana

Il rinnovamento dell’arte italiana è tradizionalmente legato ai nomi di Nicola Pisano, Giotto e Simone Martini con la loro ricerca del vero e i loro studi sulla rappresentazione dello spazio che cambiarono il rapporto tra l’immagine e lo spettatore.

Nella sala è esposta una testa in marmo della bottega dello scultore Nicola de Apulia, detto Nicola Pisano, spostatosi dalla Puglia, dove si era formato alla corte di Federico II, in Toscana. L’opera può considerarsi un esempio di scultura gotica. Si apprezzano la rotondità del volto e la freschezza del sorriso, nonchè i riccioli che la incorniciano. La scultura che faceva parte della facciata di una chiesa ha subito un importante deterioramento a causa delle intemperie. Alcune parti come il diadema e il naso sono appena accennate .

Nicola Pisano (seguace), c.1260
Testa Muliebre sorridente
da Siena, Complesso Museale dell’Opera della Metropolitana

Naddo Ceccarelli fu allievo Simone Martini. Si ritiene che il dittico portatile della foto che segue fu commissionato per devozione privata e sia stato eseguito ad Avignone quando Naddo lavorava nella bottega del maestro alla corte papale. In un’anta è raffigurata la Madonna in trono con angeli e santi, nell’altra la Crocifissione. Nelle due composizioni colpisce la poetica delicatezza delle espressioni della Vergine e delle figure circostanti così come quella del Cristo crocifisso e della Maddalena inginocchiata ai suoi piedi. La ricerca del vero lascia spazio al sentimento dando vita ad una rappresentazione poetica.

Naddo Ceccarelli, c.1340
La Madonna in trono col Bambino, due angeli e i santi Caterina d’Alessandria; Crocifissione
da Siena, Pinacoteca Nazionale (inv.194-196)


Mello da Gubbio si è certamente formato studiando gli affreschi nella Basilica di S. Francesco di Assisi dove hanno lavorato Cimabue, Giotto e Simone Martini. In questa opera sul tradizionale fondo oro il pittore cerca la profondità nella resa del trono dove è seduta la Madonna col Bambino, nei panneggi delle vesti dei personaggi e nel particolare del libro tenuto con la mano del santo nel pannello laterale. Anche la rappresentazione delle figure assume una consistenza naturale, le espressioni dei volti sono caratterizzati individualmente.

Mello da Gubbio, c.1350-1360
Madonna con Bambino, san Giovanni Evangelista e santa Caterina d’Alessandria

da Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (inv. 1324)
Cecco di Pietro, c.1386
San Giovanni Battista
da Pisa, Fondazione Pisa

L’attribuzione a Cecco di Pietro si deve al grande medievista Miklos Boskovits come si deduce da una nota autografa di Federico Zeri. Si tratta molto probabilmente di uno scomparto laterale di un polittico di cui non si conosscono ulteriori elementi.

Sala 1 – Sezione 2 – Un’idea di Rinascimento

Il termine Rinascimento sembra sia stato impiegato per la prima volta dallo storico francese Jules Michelet alla metà del secolo XIX, in riferimento alla rinnovata visione dell’uomo e del mondo che si era configurata all’inizio del Quattrocento quando l’essere umano, sicuro del proprio talento e artefice del proprio destino, si sente al centro dell’Universo esattamente come nel mondo antico. Firenze è universalmente riconosciuta come la città dove nasce e si afferma lo stile rinascimentale, fondato sullo studio scientifico della prospettiva e su una nuova rappresentazione dello spazio.

Contemporaneamente alla via maestra del Rinascimento continua prosperosa quella tardo-gotica capace di sfociare talvolta nel cosiddetto “Rinascimento umbratile” come si vede nella raffinata pala d’altare di Sano di Pietro che rappresenta la Madonna in trono col Bambino, angeli e Santi.

Sano di Pietro, c.1450
Madonna in trono col Bambino, angeli e santi
da Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 273)


Neri di Bicci, 1440
Crocifisso, angeli e santi
Collezione privata

Luca Signorelli, c.1519-1521
Il Massacro degli Innocenti, Adorazione dei Magi
da Terni, Fondazione Cassa di RisparmioTerni e Narni (inv. 246)

Nel ritratto di gentildonna di Matteo Civitali la purezza delle forme rimanda ad un prototipo di femminilità ideale. 

Nella stanza è esposto anche il ritratto del condottiero Annibale Cartaginese, un bassorilievo in marmo attribuito ad Andrea del Verrocchio, maestro di Leonardo.


Andrea del Verrocchio, c.1485
Annibale Cartaginese
da Firenze, Fascione Arte – collezione privata

La Vergine delle rocce versione Cheramy, dal nome di uno degli antichi proprietari dell’opera, è una delle tre versioni più conosciute di Leonardo. Quella qui esposta si conserva in una prestigiosa raccolta privata, mentre le altre due sono esposte al Louvre e alla National Gallery di Londra. Un dipinto raffigurante il tema dell’Immacolata Concezione era stato commissionato a Leonardo dai frati della chiesa di S. Francesco Grande a Milano nel 1483 come elemento centrale di un grande polittico, ma, a causa di un lungo contenzioso di natura economica, molto probabilmente non fu mai collocato in chiesa. Il soggetto del dipinto è l’incontro tra il Bambini Gesù e san Giovannino, un episodio descritto nella Vita di Giovanni secondo Serapione. La versione del Louvre è riconosciuta come il prototipo, mentre quella di Londra è considerata una versione successiva eseguita da Leonardo in collaborazione con allievi. Quella qui esposta, considerata dalla storiografia “la seconda versione”, a differenza delle altre, è stata trasportata da tavola a tela in occasione di un restauro ottocentesco che ha comportato la modifica del supporto da centinato a rettangolare. L’iconografia è sostanzialmente identica a quella del dipinto del Louvre con l’angelo che indica il giovane Battista alla destra della Vergine il quale non indossa la pelle di cammello e la croce di canna, attributi presenti invece nella versione londinese. In quest’ultima l’angelo non indica più san Giovannino restituendo alla Vergine la centralità della scena. Nel nostro dipinto si può ammirare la delicatezza dei volti e la plasticità dei corpi tipica di Leonardo e soprattutto un disegno di altissima qualità. Le piante che incorniciano il racconto sono descritte con la penna del botanico. Sullo sfondo si apre un paesaggio sfumato con elementi naturali calati in un’atmosfera onirica.

Leonardo da Vinci e collaboratore, c. 1485-1490
La Vergine delle rocce (versione Cheramy)
Collezione privata
Bottega di Leonardo da Vinci, c.1510
Madonna dei fusi
da Piacenza, Museo di Palazzo Costa

Sala 1 – Sezione 3 – Verso la maniera moderna

Alla fine del Quattrocento e all’inizio del secolo successivo lavorano fianco a fianco a Firenze e a Roma alcuni fra i più grandi maestri del Rinascimento italiano. Si pensi a Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Questa stagione viene generalmente definita “Rinascimento maturo”: si tratta di un’epoca di intensa sperimentazione e di compimento delle ricerche quattrocentesche sull’arte classica e sulla prospettiva. Giorgio Vasari nelle Vite la indica come il tempo della “bella maniera” o della Maniera moderna, riferendosi all’eccellenza raggiunta dai linguaggi artistici di quei maestri e dei loro contemporanei come Andrea del Sarto, Correggio e Parmigianino.

Francesco Fantoni da Norcia, c.1520
Annunciazione e i santi Sebastiano e Caterina d’Alessandria
da Terni, Fondazione Cassa di Risparmio Terni e Narni (inv. 176)

Di seguito il raffinatissimo tondo che fa parte della Pala di Sant’Agostino, una complessa struttura lignea dorata a due facce, destinata all’altare maggiore della chiesa dei frati agostiniani di Perugia; fu commissionata nel 1495 per la parte lignea a Mattia di Tommaso da Reggio, e per quella pittorica al Perugino che ricevette la somma record di 500 ducati d’oro, impegnandosi a completare i lavori entro il 1513. Alla morte del Perugino il complesso doveva essere stato finito, ma questa imponente macchina d’altare, simile ad una facciata di una chiesa rinascimentale, ebbe vita breve in quanto pochi decenni dopo fu smontata, divisa in più parti e la sua carpenteria andò dispersa così come alcuni elementi pittorici. In origine era alta più di otto metri ed era composta da almeno trenta pannelli dipinti. Dobbiamo immaginare questo tondo inserito nel registro centrale di questa grande opera.

Pietro Vannucci detto Perugino, c. 1502-1515
San Gabriele Arcangelo
da Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (inv. 274)
Raffaello, 1500-1501
Il miracolo degli impiccati
da Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale
Agostino di Cosimo Tori, detto il Bronzino, c. 1525-1528
Ritratto di giovane uomo
Milano, Collezione Giorgio Baratti
Piero di Cosimo, c.1510
Madonna col Bambino e san Giovannino
Collezione privata
Jacopo da Empoli, c.1580
Allegoria alla Temperanza
da Milano, Collezione Giorgio Baratti

Il dipinto che segue e che raffigura il Cristo Redentore è la cimasa di un gran polittico di Giampietrino, probabilmente eseguito per una importante chiesa ligure, conservato nel Museo Bagatti Valsecchi. La composizione si ispira al Salvator Mundi, un celebre dipinto del suo maestro Leonardo che godette sin da subito di straordinaria fortuna.

Giampietrino, c 1535-1540
Cristo Redentore
Milano, Museo Bagatti Valsecchi
Lorenzo Lotto, 1509
San Gerolamo nella selva
da Roma, Museo di Castel Sant’Angelo

Tiziano e Lotto, entrambi artisti veneziani, sono tra i più conosciuti esponenti della maniera moderna. Venezia persegue una propria peculiare via seppur attenta a quanto avviene nel centro Italia. Si afferma nella Laguna un lessico in cui alla pienezza delle forme viene preferita una sapienza cromatica attenta all’accostamento di colori primari e secondari, grazie all’uso “tonale” della luce

Tiziano, c. 1525
Ritratto di gentiluomo
da Bitonto, Galleria Nazionale della Puglia “Girolamo e Rosaria Devanna” (inv. 27)

L’opra che segue costituisce uno straordinario esempio di realismo grottesco in pittura. Vincenzo Campi descrive il pasto di un contadino intento a mangiare in modo grossolano un piatto di lenticchie e fagioli mentre una donna lo indica tenendo un cucchiaio. Al centro è un bambino che piange, ma non sappiamo se quella raffigurata sia una scena familiare; al contrario l’atteggiamento lascivo della donna fa piuttosto pensare ad una prostituta. La forma di formaggio, il cibo e la pentola di rame rimandano all’interno di una cucina, ma l’intento del pittore non è puramente descrittivo bensì allusivo, con doppi sensi di natura erotica secondo una concezione ambivalente che rimanda alla pericolosa libertà degli istinti condannata dalla Chiesa. Vincenzo Campi era famoso proprio come illustratore di queste scene che di fatto anticipano la rivoluzione dei Carracci a Bologna e Caravaggio a Milano.

Vincenzo Campi, c. 1508
Mangiafagioli (famiglia di contadini)
Collezione Privata

Sala 2 – Sezione 4 – Il Seicento: Naturalismo, Classicismo e Barocco
Nel primo Seicento lo studio della natura è interpretato dal naturalismo di Caravaggio da un lato e dal classicismo dei Carracci dall’altro. I Carracci sono alla ricerca dell’idea universale del bello e guardano al colorismo illusionistico di Correggio, al chiaroscuro di Tiziano, e alla grandiosità delle opere romane di Raffaello. A Roma, nei cantieri papali, lavorano i giovani Reni e Lanfranco, formati all’Accademia bolognese dei Carracci. Al contrario dei seguaci di Caravaggio sono abilissimi frescanti e fanno fortuna grazie alle numerose commissioni di ricchi mecenati che vogliono abbellire le loro ville lussuose.


Dagli anni Trenta il secolo si arricchisce del “gran teatro barocco”. Roma, sede della corte papale è il fulcro a cui approdano i migliori artisti attratti dalle potenti committenze cardinalizie. Per celebrare la rinascita dalle ceneri della Controriforma, la Chiesa abbellisce gli edifici di culto con gruppi scultorei complessi e immaginifici, affreschi con soggetti gloriosi e spazi ampi e luminosi. Il fedele è accolto in un ambiente scenografico dove dominano l’oro, gli stucchi colorati e le pietre preziose sulle note dell’organo che avviluppa in un grande virtuosismo strumentale. Gian Lorenzo Bernini artista poliedrico e universale è il regista del barocco.

Ludovico Carracci, 1597-1599
Flagellazione di Cristo
da Bologna, Pinacoteca Nazionale
Guido Reni, 1615
Santa Cecilia
Collezione privata
Giovanni Lanfranco, c.1620
Commiato di Cristo dagli apostoli e dalle pie donne
da Bitonto, Galleria Nazionale della Puglia “Girolamo e Rosaria Devanna” (inv.33)
Guido Reni, c.1640-1642
San Giuseppe con Bambino
da Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della città “Luigi Tonini”
Mattia Preti, 1675-1680
Campaspe
da Ariccia, Museo del Barocco di Palazzo Chigi (coll. Lemme CL9)

Nel 1926 l’Operaio della Primaziale pisana Curzio Ceuli commissiona ad Orazio Riminaldi la decorazione pittorica della cupola del Duomo di Pisa. Per affrontare questa impresa di proporzioni titaniche (la circonferenza della cupola è di 57 metri) Orazio collabora con i fratelli Giovanni Battista e Girolamo che si occuparono rispettivamente degli apparati lignei e di quelli pittorici. Tra il 1627 e il 1629 Orazio esegue tutti gli studi preparatori, i bozzetti e i modelli da esibire al committente. Quella che segue è la bellissima testa dell’Assunta, il modello per il gruppo dell’Assunta portata in cielo dagli angeli. La testa dell’Assunta è universalmente riconosciuta come un capolavoro del classicismo in pittura. Tra il 1629 e il 1630 Orazio Riminaldi riesce a completare quasi interamente la decorazione della cupola, ma nel dicembre 1630 muore improvvisamente di peste, lasciando alcune parti non finite che saranno successivamente terminate dal fratello Girolamo.

Orazio Riminaldi, c. 1627-1629
Studio per la testa dell’Assunta
da Pisa, Opera della Primaziale Pisana

L’opera successiva è di Salvator Rosa, artista poliedrico, una delle personalità più complesse ed affascinanti di tutto il Seicento, sempre impegnato nel tentativo di conciliare arte e vita, pittura e pensiero. La sua prima formazione avviene a Napoli nella bottega del futuro cognato, Francesco Fracanzano. Nel 1635 si reca a Roma. ma è uno spirito libero, bizzarro e provocatore ed entra in contrasto con Gian Lorenzo Bernini e la cerchia dei suoi amici, protetti da papa Barberini. Se Bernini, preso a soggetto di una satira proprio dal Rosa, sapeva muoversi in perfetta sintonia con il potere, Rosa, l’anticonformista, definito il “pittore del dissenso”, è stato uno dei pochi grandi artisti a non ottenere mai una commissione pubblica importante nella Roma barocca. Le sue opere sapevano colpire la sensibilità e l’immaginazione dei letterati, ma non quella di cardinali e aristocratici romani. La sua pittura ha anticipato di due secoli il gusto romantico, esercitando una significativa influenza su alcuni dei principali esponenti della cultura francese ottocentesca. Tra le opere più significative di Rosa rientra sicuramente Mario in meditazione sulle rovine di Cartagine che raffigura il generale Mario di fronte ad un muro sbrecciato e ai resti dell’antica città punica, mentre è assorto in una meditazione filosofica sulla caducità della vita e delle vicende storiche. Sullo sfondo un cupo cielo notturno accentua la solitudine del grande console, quasi fosse una riflessione personale dell’artista.

Salvator Rosa, c.1650
Mario davanti alle rovine di Cartagine
da Piacenza, Museo di Palazzo Costa
Francesco Fracanzano, c.1630
Filosofo
da Bari, Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto” (inv.1873/1368)
Ludovico Carracci, 1597-1599)
Coronazione di spine
da Bologna, Pinacoteca Nazionale (inv.464)

Sala 3 – Sezione 5 – Il Neoclassicismo e il gusto per l’antico
Canova è il grande interprete dell’arte classica in versione moderna. Le sue sculture si ispirano a principi di bellezza ideale dell’arte antica. I due pugilatori Creugante e Damosseno sono calchi originali in gesso, eseguiti dallo stesso Canova e da lui donati all’Accademia di Belle Arti di Carrara, delle statue presenti nel cortile del Belvedere del Museo Pio Clementino in Vaticano. Creugante e Damosseno sono due lottatori in gara ai giochi dell’antica città greca di Nemea. Dopo una lunga sfida i due atleti continuavano a pareggiare e sembrava che nessuno riuscisse a vincere. Fu deciso di concedere ad entrambi un ultimo colpo. Canova rappresenta esattamente questo momento. Il lottatore sulla sinistra ha il braccio destro col pugno chiuso sopra la testa, le gambe ben piantate mentre sta per sferrare il suo colpo. L’altro, di fronte, tenta di proteggersi con il braccio sinistro, ma ha la mano destra protesa come una lama pronta a sferrare un colpo mortale al fianco. Una mossa sleale per la quale Damosseno sarà esiliato. Canova riesce a rendere la tensione del momento senza rinunciare alla classica rappresentazione plastica di giovani corpi che appaiono belli e vigorosi. Lontani dalla fissità dell’arte classica i due personaggi sono sia eroici sia umani.

Corrado Giaquinto,,c. 1750
Ulisse e Diomede nella tenda di Reso
Bari, Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto” (inv.1645/1179)

L’opera successiva è di Canaletto, pittore nato a Venezia nel 1697 e formatosi nella bottega del padre Bernardo Canal, scenografo e pittore. Durante un viaggio di lavoro a Roma rimane affascinato dalle vedute architettoniche di quella città che diventano soggetto dei suoi primissimi dipinti a Venezia, all’origine del suo successo. Canaletto dipinge molteplici viste della sua città natale con dettagli topografici e folkloristici che tanto piacciono ai turisti britannici. A partire dalla metà del Seicento i giovani facoltosi concludono la loro formazione con il Grand Tour, un viaggio in compagnia di un tutore nelle più importanti città d’arte tra le quali Parigi, Firenze, Roma, Napoli e Venezia. Al ritorno portano con sè un dipinto come souvenir e memoria dell’esperienza con ritratti di pittori italiani e vedute della città. Canaletto diventa un artista molto ricercato per le immagini di Venezia in piccolo formato che dipinge con precisione fotografica grazie all’uso della camera ottica. I Britannici pagano profumatamente i suoi dipinti che trovano luminosi, gioiosi e particolarmente attraenti grazie ai dettagli minuziosi e alla capacità dell’artista di arricchirli inserendo nelle scene momenti di festività tradizionali della laguna. Nel 1764 Canaletto si trasferisce a Londra dove soggiorna per dieci anni.

Il dipinto in mostra era originariamente di proprietà del barone di Northwick, John Roushout che vantava una prestigiosa collezione di dipinti di maestri italiani tra cui Raffaello, Tiziano e Annibale Carracci. La veduta è una rappresentazione del Canal Grande dominato dalla grandezza della chiesa della Salute sulla destra. Canaletto arricchisce la scena inserendo la cerimonia dello sposalizio di Venezia con il mare. Il doge, che sta per entrare in chiesa, guida la processione e sulla sinistra sono rappresentate le gondole. La veduta non è fedele in quanto alcuni edifici appaiono in posizioni di fantasia probabilmente per accontentare il gusto della committenza.

Canaletto, c. 1756
Ingresso del Canal Grande con la veduta della chiesa della salute
da Bratislava, coll. Roberto Parenza Angeli
Bernardo Canal, c.1700
Veduta di Venezia, Piazza San Marco con Palazzo Ducale
da Sabbio Chiese (BS), Galleria Antichità La Pieve
Antonio Canova, post 1808
I pugilatori Damosseno e Creugante, modelli di gesso da forma madre a tassello
da Carrara, Accademia di Belle Arti (inv.215)

Segue l’opera di Filippo Bigioli che rappresenta un aspetto privato del grande genio di Michelangelo, l’incontro nel suo studio con Vittoria Colonna, sua musa ispiratrice, conosciuta durante il soggiorno romano mentre realizza il Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Michelangelo in piedi accanto alla statua di Mosè parla con fervore alla marchesa che, in abito vedovile, lo ascolta con attenzione seduta su una sedia. Il dialogo tra i due è il fulcro della composizione, ma tutti i presenti seguono la lezione di Michelangelo affascinati, anche il ragazzo di spalle in abito rosso sulla sinistra che interrompe perfino il suo lavoro. Il Mosè faceva parte del progetto per la tomba commissionata da papa Giulio II della Rovere a Michelangelo. Com’è noto l’impresa titanica non fu mai completata e la statua fu collocata al centro della tomba in dimensioni ridotte in San Pietro in Vincoli. Se il Mosè ci ricorda l’influenza della statuaria classica fin dal Rinascimento e della rivisitazione canoviana, questo dipinto di Bigioli del 1850 appartiene alla corrente del romanticismo storico e anticipa la sezione successiva della mostra

Filippo Bigioli, 1850
Vittoria Colonna visita l’atelier di Michelangelo
Collezione privata

Sala 4 – Sezione 6 – L’Ottocento: citazioni letterarie e rappresentazione del vero
Il dipinto di Bezzuoli del 1829, commissionato dal granduca Leopoldo II “L’ingresso di Carlo VII in Firenze”, diventa un modello di riferimento sia stilistico sia nel contenuto. Personaggi illustri vengono rappresentati insieme a uomini comuni dando al racconto storico un taglio di realtà, una dimensione del verosimile. Vito D’Ancona aggiunge alla veridicità del racconto storico la bellezza morale e l’espressione come fine congiunto del fare arte. In mostra la grande tela di soggetto storico letterario esposta nel 1861, l’anno dell’Italia unita, che raffigura l’incontro fra Dante e Beatrice. Così come descritto nella Vita Nova, scritta in volgare tra il 1292-1294, l’amata appare giovanissima, vestita di bianco col velo che le incornicia il viso e lo sguardo fugace verso il poeta. La giovane è accompagnata da due signore; sulla sinistra in linea con la porta dell’Arno il poeta, lo sguardo abbassato che tradisce l’emozione. Un paesaggio di naturale verità al tramonto accompagna la narrazione con squisita dolcezza.

Vito D’Ancona, 1861
L’incontro di Dante e Beatrice
Collezione privata

Nel dipinto che segue di Giovanni Fattori è invece raffigurato un paesaggio della Maremma con un buttero al centro che avanza lasciandosi alle spalle due vacche bianche smagrite. La collina dipinta con lunghe e rapide pennellate nella calde tonalità della terra appare desolata e minacciata da un cielo pesante. La natura è rappresentata in tutta la sua durezza, l’uomo è un cavaliere solitario con lo sguardo ispessito dal sole e dalle fatiche della vita in campagna.

Giovanni fattori, c.1896
Campagna romana
da Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori

Allievo di Canova e protetto da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, Lorenzo Bartolini, autore dell’opera che segue, fece dello studio della statuaria classica un vero e proprio credo di vita. Lo si vede molto bene in questa fedele imitazione dello Spinario, celebre bronzo di età ellenistica conservato a Roma ai musei capitolini. La scultura è eseguita in candido marmo apuano dai toni lucidi e quasi alabastrini e mostra virtuosismi esecutivi nella descrizione del volto dai tratti dolci ambiguamente androgini, nelle ciocche dei capelli, nella resa dei dettagli come le unghie delle mani e dei piedi e le pieghe delicate della pelle. L’attrazione verso lo Spinario antico fu fonte di riflessione per Bartolini che riconosceva nell’antico scultore greco Fidia il suo maestro putativo. Grazie ad un soggiorno a Parigi studiò le collezioni raccolte da Napoleone in occasione delle sue campagne militari, perfezionandosi nell’imitazione dell’arte classica. Forte di questo bagaglio, tornato in Italia, fu nominato professore di scultura prima all’Accademia di Belle Arti di Carrara, poi a quella di Firenze.

Lorenzo Bartolini, c. 1850
Lo Spinario
Collezione privata

Sala 4 – Sezione 7 – Il Novecento: un secolo di sperimentazioni
I ritratti di Boldini, De Nittis e Corcos raccontano già alla fine dell’Ottocento la modernità della nuova borghesia cosmopolita. Le immagini di Boldini diventano il simbolo della donna emancipata che conquista il suo spazio in un gioco di seduzione, determinazione e forza intellettuale. La principessa Eulalia di Spagna è dipinta a figura intera, in una posa convenzionale, eretta con le mani giunte come richiesto dal suo rango. La vivacità del ritratto è tutta nello svolazzare dell’abito riccamente decorato nelle sue trasparenze e nella spallina calata.

Giovanni Boldini, 1898
Ritratto dell’infanta Eulalia di Spagna
da Ferrara, Museo Giovanni Boldini (inv. 1363)

Il “Busto di donna” di De Nittis è uno scorcio più intimo e si sofferma con precisione sul dettaglio del busto indossato dalle donne per apparire più eleganti ed evidenziare la vita.

Giuseppe De Nittis, c. 1883
Busto di donna
da Barletta, Pinacoteca “Giuseppe De Nittis” (inv. 896)

Giuseppe De Nittis, c. 1883
Dans le Monde
da Barletta, Pinacoteca “Giuseppe De Nittis” (inv. 877)

Il ritratto di Emma Ciabatti di Corcos è più misurato. Il volto della donna emerge da un fondo scuro incorniciato da una mantellina verde bordata di pelliccia nera. La donna, una nobile vedova intellettuale madre di tre figli sposerà Corcos poco dopo. Colpisce la profondità dello sguardo sensuale e malinconico.

Vittorio Corcos, c. 1889
Ritratto della moglie Emma Ciabatti
da Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori (inv. 1991/1080)

Gli altri dipinti della sezione appartengono al Novecento, un periodo segnato dal mito del progresso, la psicanalisi e due conflitti mondiali. Gli artisti sperimentano nuove soluzioni dal figurativo all’astratto fino al concettuale.

Giulio Aristide Sartorio, 1926
Madre e figlio
Collezione privata
Pino Pascali, 1963
Tre donnine
Collezione privata

Pino Pascali, 1963
Pubblico
Collezione privata

Mentre Depero rappresenta il movimento del Futurismo, Chini non aderisce mai con convinzione alle Avanguardie storiche, ma sviluppa un linguaggio personale tra tradizione rinascimentale, Art Nouveau e gli Arts and Crafts inglesi.

Fortunato Depero, 1952
Teste più travi
da Rovereto, MART, Museo di arte Moderna e Contemporanea (fondo Depero)
Galileo Chini, 1917
Far Fiorenza bella
Collezione privata

Concludiamo con un’opera di Alberto Burri, autore nato a Città di Castello nel 1915. Burri studia medicina e parte per il secondo conflitto mondiale ma viene fatto prigioniero nel 1943. In prigione in Texas inizia a fare arte e tornato in Italia abbandona la medicina per dedicarsi alla sua vera passione. E’ considerato uno dei maggiori esponenti dell’arte informale europea.

Nero, bianco, nero è un’opera dove la tela non è più mezzo per realizzare l’opera d’arte, ma insieme alla stoffa, la chiusura lampo, l’olio e il bianco di zinco è opera d’arte stessa. Fu esposta per la prima volta alla XXVIII edizione de La Biennale di Venezia nel 1956. Il quadro rimanda allo spettatore un senso di rigorosa composizione ed equilibrio che vuole restituire all’uomo scosso dalla seconda guerra mondiale la possibilità della cura delle lacerazioni subite.

Alberto Burri, 1955
Nero, bianco, nero
Roma, GNAM, Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea

Abstract: Catalogo della mostra “G7 – Sette secoli d’arte italiana”- AA.VV. Locorotondo Editore, Giugno 2024

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